Salvatore Mazza
La prima volta che sono andato a Lourdes con il "treno bianco" era il 1971. Avevo 16 anni, e il servizio come barellieri c'era stato proposto al termine del primo anno di noviziato degli scout. Il pellegrinaggio era una cosa quasi avventurosa: il viaggio in treno durava un giorno, nel vagone-cucina ancora si preparava il minestrone di verdure caldo "espresso", poi distribuito con bidone e mestolo scompartimento per scompartimento, e spesso finiva sui piedi a ogni sussulto del treno. Il vagone "attrezzato", su cui viaggiavano i malati più gravi o chi aveva bisogno di maggior assistenza, era dotato di barelle forse risalenti alla prima guerra mondiale. Aria condizionata neanche a parlarne, e a luglio era un bel sudare. La prima volta, dunque, era il 1971. Poi ci sarei tornato ogni anno fino al 1985, e dopo ancora quasi regolarmente, cercando di rendere la cosa compatibile con i miei nuovi impegni di lavoro e familiari. Fin quasi l'altro ieri.
Ricordo ancora volti, nomi, episodi. Tutto molto vivido. Inutile negarlo, Lourdes è una realtà che colpisce. A volte stordisce. Perché al netto di ogni pietismo, che ancora c'è, e di una certa persistente retorica della sofferenza – con la quale, lo ammetto, non sono mai riuscito ad andare d'accordo –, Lourdes è un posto che ti insegna un sacco di cose. E non parlo di fede – è un altro discorso – ma di umanità. A cominciare dal fatto che è sempre bene restare con i piedi sulla terra, perché la salute è una cosa preziosa, di cui bisognerebbe ringraziare ogni giorno, per nulla scontata, e l'infermità non è – malgrado quanto ci si sforzi di credere o di voler credere – un'anomalia ma una condizione dell'esistenza. È la condizione che ci ricorda che non siamo, e mai saremo, immortali. E che al contrario siamo, e saremo sempre, fragili. Vulnerabili. Una condizione che va riconosciuta e accettata per ciò che è: non la si può cancellare, e neppure far finta che non esista. Per questo va, anche, rispettata.
Tutto ciò, come dicevo, l'ho imparato a Lourdes. E forse è per questo che quando ad ammalarmi, e sul serio, sono stato io, non mi sono ritrovato con i pugni levati verso il cielo a disperarmi a chiedere "perché?". Poteva capitare a chiunque, ed è capitato a me. Non credo sia fatalismo. E, lo giuro, non mi ha fatto piacere. Arrabbiarsi, però, non serve a niente. Neppure disperarsi.
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