Del libro di Giorgio Ficara Lettere non italiane, pubblicato qualche anno fa da Bompiani, si discusse poco, proprio perché la sua tesi centrale, enunciata nel titolo, avrebbe dovuto essere altamente discutibile. L'attuale produzione letteraria, soprattutto narrativa, nel nostro Paese, diceva Ficara, ormai non ha più a che fare con la tradizione letteraria italiana: e questo era stato già chiaro quando, dopo autori capaci di scrivere come Gadda e Elsa Morante, come Volponi o Parise o La Capria, era diventato un idolo Umberto Eco, con il suo incredibile successo di critica e di pubblico. Lingua e stile non erano più gli stessi e negli autori più giovani risultava evidente che il passato, anche novecentesco, della nostra letteratura era del tutto ignorato. Ora, leggendo qua e là il numero 307 della rivista L'Immaginazione, rimango sorpreso nel vedere che la diagnosi pessimistica di Ficara ricompare in termini a volte anche più negativi. Intervistata da Silvana Tamiozzo Goldmann a proposito della sua traduzione in italiano del grande dialettale Carlo Porta, Patrizia Valduga a un certo punto dice: «Personalmente, non ne posso più dei giallisti, dei fabbricanti di bestseller, dei simil-poeti, dei simil-scrittori, di tutta questa asfissiante e ributtante pataccheria imposta da un'industria culturale che vuole che tutto sia confuso con tutto, che non si distingua più fra grande e piccolo, alto e basso, che ci vuole conformisti e inebetiti. Tradurre Porta è stato come passare dall'inferno al paradiso». Poco più avanti Angelo Guglielmi, che è stato negli anni Sessanta critico di punta del Gruppo 63 o Neoavanguardia, recensendo la ristampa del romanzo Guerre lontane di Franco Cordelli (che uscì da Einaudi nel 1990 e ora torna da Theoria), conclude con il proprio «timore che oggi in Italia e forse in Europa la letteratura (in particolare la narrativa) ha esaurito tutte le sue carte». È questo che gli fa dire che Cordelli è «un autore (uno dei pochi, forse l'ultimo ancora in vita)», un autore cioè che fa ancora pensare a una letteratura di ieri, oggi sparita. Poche pagine oltre Antonio Prete apre così il suo articolo: «Addio alla letteratura? È finita l'epoca del classico, e anche del libro che dà rilievo al come scrivere, cioè alla lingua e allo stile? Scritture romanzesche e di genere si assiepano sui banchi delle librerie, dove ormai, dominando le ragioni mercantili, le presenze sono anzitutto di nomi già veicolati nel campo della comunicazione televisiva. Il romanzesco convenzionale dilaga». Forse dunque Ficara aveva ragione. Di certo non è il solo a pensare che una vera e propria mutazione in letteratura sia avvenuta. Abbiamo o non abbiamo trovato il linguaggio critico giusto per parlare di una tale letteratura mutata?
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