sabato 9 settembre 2017
È sempre molto difficile, nel fare cronaca, resistere alla tentazione delle iperboli. Aggettivi o locuzioni come “storico”, “inedito”, “senza precedenti”, e simili, spesso finiscono quasi per sfuggire dalle dita di chi racconta per andare a fissare un momento degno di essere consegnato nella sua assolutezza di novità. Anche quest'ultimo viaggio di papa Francesco in Colombia, per come è nato e per le circostanze straordinarie in cui si sta svolgendo, meriterebbe senz'altro quegli aggettivi. Tuttavia, ragionando al di fuori della stretta cronaca, c'è qualcos'altro che merita di essere sottolineato. Un qualcosa che sta proprio nel motto scelto per questo viaggio, «Facciamo il primo passo»: che, sì, racchiude tutto il senso contingente della visita in Colombia, ma che nello stesso tempo, senza nessuna enfasi, mette in evidenza quello che è stato il tratto comune ai pontificati degli ultimi cinquant'anni. Ossia il coraggio di osare, di marcare appunto il primo passo, di rischiare in nome di un progresso nel Vangelo capace immediatamente di tradursi in un contributo al bene comune.
Paolo VI che mette all'asta la tiara, simbolo di un potere temporale che non c'è più e che non si vuole più, e inizia la tradizione dei viaggi a incontrare gli uomini dentro la loro storia. Papa Luciani che in soli trentatré giorni sovverte l'immagine stessa del papato e del modo di comunicarlo. E poi Giovanni Paolo II, le cui “prime volte” sono addirittura impossibili da contare: l'incontro interreligioso di Assisi, la visita alla sinagoga e quella alla moschea, il primo viaggio in un Paese ortodosso, o l'ingresso in una chiesa luterana; e, su un piano diverso, l'esposizione della sua fragilità umana, la malattia, la sofferenza. Ancora, il coraggio di Benedetto XVI, che per restituire la Chiesa alla propria dignità ha affrontato lo scandalo della pedofilia nel clero con una determinazione assoluta, arrivando a indurre le dimissioni di cento vescovi; e con ancora più coraggio è stato capace di rinunciare quando ha sentito il venir meno delle sue forze. Così fino a Francesco, e i suoi sono “primi passi” che seguiamo ogni giorno.
Già solo a mettere in fila questo stringatissimo e largamente incompleto elenco, ci si rende conto di che cosa abbiano realmente segnato tutti questi primi passi, e di quanto realmente, come detto, abbiano cambiato la storia non solo della Chiesa, ma di tutta l'umanità. Ci si rende conto di come, nel togliere ai credenti ogni tipo di alibi per rinchiudersi nelle proprie certezze e isolarsi così dal mondo, sempre più abbiano spinto e continuino a spingere perché, come chiesto dal Concilio, la Chiesa sappia vivere nel mondo e, secondo il magistero di Giovanni XXIII, dare al mondo il proprio contributo di «madre e maestra». Maestra non perché astrattamente “sa”, ma perché concretamente “fa”, e fa con l'amore di una madre. «La sfida grande della Chiesa oggi – ha detto papa Francesco nel giugno del 2014, all'apertura del Convegno Pastorale diocesano di Roma – è diventare madre: madre! Non una Ong ben organizzata, con tanti piani pastorali... Ma quello non è l'essenziale, quello è un aiuto. A che cosa? Alla maternità della Chiesa: se la Chiesa non è madre, è brutto dire che diventa una zitella, ma diventa una zitella! È così: non è feconda... A me piace sognare una Chiesa che viva la compassione di Gesù. Compassione è “patire con”, sentire quello che sentono gli altri, accompagnare nei sentimenti. È la Chiesa madre, come una madre che carezza i suoi figli con la compassione. Una Chiesa che abbia un cuore senza confini, ma non solo il cuore: anche lo sguardo, la dolcezza dello sguardo di Gesù, che spesso è molto più eloquente di tante parole».
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