Cinquant’anni fa, oggi. Kinshasa, Zaire, 30 ottobre 1974: Muhammad Ali contro George Foreman, per il titolo mondiale dei pesi massimi. Più che un match – il più bello di sempre - una leggenda. Alì aveva, allora, trentadue anni. Io dieci, e i pugni mi facevano paura: anche in tv, anche in bianco e nero. Ricordo solo che sul ring lui danzava. E menava: con una rapidità straordinaria. Fuori era strafottente, megalomane, spettacolare, irresistibile. Era uno che diceva: quando smetterò, la boxe non sarà più niente. L’ho rivisto dal vivo molti anni dopo Muhammad Ali, nato a Louisville, battezzato Cassius Marcellus Clay, l’uomo ribelle che rifiutò la guerra e le armi prima di aver rifiutato il proprio nome. Ai Giochi di Atlanta '96 provarono a fargli accendere la fiamma olimpica. Quella notte tremava come un budino. Gonfio, spiritato, morsicato dal Parkinson che non gli ha chiesto chi fosse prima di iniziare a prenderlo a pugni. Certe malattie sono ignoranti: dovrebbero sapere con chi hanno a che fare prima di aggredire. Dovrebbero informarsi, per rispetto di chi hanno deciso di distruggere. Magari cambierebbero idea. Magari. Dovrebbero riconoscere un eroe, giusto o sbagliato che sia. In un tempo dove gli eroi, quelli giusti come quelli sbagliati, hanno finito di esistere da un pezzo.
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