Ho letto di recente un editoriale del Sole24ore (di Moisés Naím, 18 ottobre) nel quale alla crisi economica e finanziaria mondiale si accosta un'altra crisi di non minori proporzioni e gravità, la crisi dell'istruzione. In tutti i Paesi, con sporadiche eccezioni, accade che gli studenti imparino poco e male, siano meno preparati che in passato. E non si riesce neppure a capire qual è il rimedio giusto: non è bastato portare più computer in classe, non basta pagare di più gli insegnanti, non basta aumentare l'autonomia o viceversa la centralizzazione del sistema scolastico. Ma se l'istruzione non funziona, ne risentono negativamente sia la qualità del lavoro che la vita pubblica. In Italia l'educazione civica è carente o nulla, nessuno sa più la geografia o la storia, la matematica non piace e la lettura nemmeno. Intanto anche l'editoria è in crisi. Un ampio articolo di Paolo Di Stefano sul Corriere della sera (20 ottobre) avvertiva che l'Italia diventa sempre più un Paese senza identità, anche perché non crede più nei suoi classici, li ignora, non li pubblica. Troppe le imprese editoriali e le collane di autori del passato ormai concluse o in declino. Ma anche la retorica che esalta la lettura in sé, in realtà non vale. In uno spot televisivo una simpatica signora con un libro in mano ci dice che «leggere è il cibo della mente». Non si sa che libro stia leggendo. Ma il punto è lì. Quali letture nutrono la mente e quali la intossicano? Dopotutto, i nostri supplementi culturali una funzione ce l'hanno: aiutano a scegliere cosa leggere.
Qualche decennio fa, in uno dei miei primi incontri con Franco Fortini, gli chiesi quali erano secondo lui i fondamenti dell'istruzione. Rispose: la lettura sistematica e integrale dei classici e l'osservazione naturalistica. Giusto. Ma credo che ci fosse un sottinteso: bisogna chiedersi cosa cercare nei classici, perché osservare il mondo, che fare di se stessi.
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