Nel messaggio di quest'anno di papa Francesco per la Giornata mondiale del malato, la «pandemia del coronavirus» è citata sin dalle prime righe, e comunque è impossibile leggerlo senza pensare specificamente alla malattia che tutto il mondo ha dolorosamente conosciuto in questi mesi, come ha fatto qui su “Avvenire” Riccardo Maccioni ( bit.ly/2NfKxhC ). Ma nel 2020 l'omologo messaggio papale, per ragioni meramente tecniche (era stato pubblicato il 3 gennaio), non vi faceva cenno, così che esattamente un anno fa, in questa rubrica, mi industriavo a segnalare le molte voci credenti che in Rete avevano cercato di colmare l'inevitabile sfasamento. È stato il primo di una lunga serie di riferimenti al coronavirus, che ancora non può dirsi conclusa. Frattanto ho già avuto occasione – per il ricco volume “Pandemie mediali”, a cura di Vania De Luca e Marica Spalletta, nonché per le sue presentazioni che le varie Ucsi regionali stanno organizzando – di ricapitolare cosa ho trovato esplorando per conto di “Avvenire” il quadrilatero Fede-Chiesa-Rete-Covid. La Rete della comunicazione ecclesiale ha svolto, a mio parere, un ruolo di accompagnamento spirituale e anche sociale, soprattutto nelle settimane nelle quali il distanziamento sociale è stato più drastico. Di più: ricordando da un lato la diffusione di cui in questo lungo anno ha goduto, spesso a torto, la metafora religiosa della clausura, e dall'altro l'espressione «Chiesa in uscita» che spesso sintetizza il magistero di papa Francesco, si può raccogliere tutto il buono che è stato messo in campo dentro questo piccolo paradosso: proprio quando era chiesto a tutti, chierici e laici, di restare chiusi nelle proprie chiese e nelle proprie case, la Chiesa ha fatto vedere, attraverso la Rete, di saper uscire da sé stessa, andando incontro, nei modi più diversi, alle donne e agli uomini del suo tempo mentre attraversavano una tale prova.
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