Aveva detto che quel pomeriggio arrivava. Per le sette. Non lo vedevo da un mese, mio padre, ma finalmente sarebbe venuto da noi, su in montagna.
Avevo sei anni. Alle cinque mi mettevo di vedetta alla finestra. La strada che saliva dal paese era molto ripida, si sentiva il motore delle auto che stentavano già da lontano. Stavo con l'orecchio teso. A ogni rumore mi sporgevo dalla finestra. Niente, non era lui ancora. Nemmeno questo. Né quest'altro. Il cielo d'agosto sbiadiva. Le sette, e lui non era arrivato. Prendevo una poltroncina, stanca, e l'avvicinavo alla finestra, per non perdere di vista la strada. Con il buio le auto, più rare, erano solo fari lucenti nel buio. Ma non quelli dell'auto di mio padre, che riconoscevo: tondi e gialli, come occhi di rana. E anche il motore della sua vecchia grossa auto, distinguevo. Ma, ancora niente. Il sonno ormai mi abbassava le palpebre. Rannicchiata nella poltrona alla finestra, mi addormentavo. Era notte quando mi svegliava uno scricchiolio di pneumatici sulla ghiaia del cortile. Il cofano bollente, l'odore delle sue sigarette, la faccia stanca. Una valigia piena di timbri di paesi stranieri. Sembrava venire da così lontano. Adesso, non sapevo che dirgli. Ma quanto lo aspettavo, ogni volta. Con quale ostinata, radicale domanda.
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