Scriveva Paul Valéry nell'aprile 1919: «Noialtre, civiltà, ora sappiamo che siamo mortali». Gli fece eco, da un'altra prospettiva, Emmanuel Mounier nel 1949: «Vi è una sola storia, quella dell'umanità in cammino verso il regno di Dio, storia santa per eccellenza». Come si comprende dalle date, i due intellettuali emettevano queste sentenze subito dopo i terribili conflitti mondiali del secolo scorso. Dinanzi a tali tragedie e all'immenso numero di perdite di vite umane, per un uomo di cultura era inevitabile porsi la domanda sul senso della storia. Domanda che vale ora: sta ancora in piedi un qualsiasi discorso che miri a cogliere il delinearsi del disegno di Dio nelle pieghe delle vicende umane? Se pare infatti tramontata l'idea della storia come un progresso lineare verso il bene, è un'illusione anche la possibilità di uno sguardo più profondo, in grado di leggere gli accadimenti con un'intuizione che ne scruti il mistero che li avvolge, che unisca dimensione trascendente e immanente? A questi dubbi cerca di rispondere positivamente lo storico Henri-Irenée Marrou in tutti i suoi studi, come in La conoscenza storica (1954, tr. it. Il Mulino 1962) e nel libro che qui suggeriamo, Teologia della storia (uscito in Francia nel 1968 e in Italia l'anno dopo da Jaca Book).
«Gli uomini della mia età – sostiene Marrou – nati alla vita dello spirito ed alla coscienza di sé all'indomani delle grandi stragi del 1914-1918, non hanno cessato di essere perseguitati fino all'angoscia dall'interrogativo posto dalla storia che bisognava vivere, il senso della storia nella sua globalità». A quel tempo, si era dissolta l'illusione di uno sviluppo continuo che poneva «la civiltà occidentale come l'ultima tappa raggiunta dall'evoluzione umana». Con la rivoluzione russa e le sue convulsioni, il crollo di Wall Street, l'avvento dei totalitarismi e la seconda guerra mondiale, un pessimismo di fondo attanagliava la concezione della storia: «Non vi è nessuno fra noi che durante questi anni difficili non abbia percepito la contingenza radicale della città terrestre, come attraverso un lampo che squarcia la notte apocalittica». Così, anche nel dopoguerra, col globo intero sotto scacco per l'incubo atomico, il mondo della storiografia era dominato dalla corrente dell'antistoria, che sanciva l'impossibilità di una filosofia della storia. Senza ricadere nell'ottimismo trionfante delle ideologie ottocentesche, invece Marrou osa riproporre la sfida di una teologia della storia, vale a dire di un senso superiore insito negli eventi storici.
In questa prospettiva egli ha ben presente che l'interprete dei fatti storici deve mantenere una buona dose di umiltà e che deve rivolgersi alla teologia per cercare nuove strade. Marrou guarda a quel disegno provvidenziale che lascia le sue tracce nelle vicende umane: «Se si può qualificare ottimista la visione cristiana della storia, si tratta di un ottimismo tragico che si afferma con la fede e conserva la speranza malgrado la realtà troppo dura o troppo sensibile del male che l'esperienza retrospettiva e quotidiana registra. Non è pessimismo ma sano realismo». Lo storico deve certo essere consapevole che tragedia e rovina sono sempre in agguato, tanto che intere civiltà (dagli Egizi ai Maya) possono scomparire del tutto. Ma vale il principio dell'eterogenesi dei fini: un evento che ai contemporanei pareva una sciagura terribile, dopo qualche decennio o secolo si rivela provvidenziale. Per Marrou, come poi per Paolo VI, la caduta del potere temporale della Chiesa del 1870 era uno di questi. Come Agostino dopo il crollo dell'impero romano, Marrou vuole penetrare il mistero della storia e ne sottolinea l'ambivalenza. Essa ha due volti, «uno sinistro l'altro ridente; rivolti l'uno verso il Bene, l'apertura all'essere, l'altro verso il Male, la dissoluzione, la distruzione, il non essere. Al tempo stesso in cui vi si realizza il progresso della città di Dio, essa è testimone della decomposizione della città del male». Tutte le civiltà, piccole o grandi, sono il tentativo di realizzare sulla terra un inizio della città di Dio: «Ogni città terrestre è un'unione instabile di Gerusalemme e Babilonia». Ma proprio per questo conserva le tracce di quell'impronta positiva racchiusa nell'uomo e in quella «avventura collettiva» che è la storia.
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