Ècosa abbastanza nota che i dispositivi informatici, mentre promettono un'immediata utilità informativa e comunicativa, occupano anche la mente molto al di là di qualunque scopo preciso e pratico. Anzi, il sollievo e il piacere che danno, per cui le moltitudini non riescono più a farne meno, è proprio qui: riempiono la coscienza senza che la coscienza abbia bisogno di attivarsi, ne prendono il posto, tendono a sostituirla. Diventa difficile immaginare persone che senza digitare riflettano, ricordino, siano impegnate a osservare, a meditare su qualcosa, a pregare. Ma oltre a un'industria della coscienza, che prende possesso delle coscienze, esiste anche un'industria dell'apparenza. La cosiddetta "civiltà dell'immagine", di cui si parla da più di mezzo secolo e che il Novecento ha creato e sviluppato soprattutto con il cinema, la televisione e la pubblicità, ha reso più importante l'apparire e il sembrare che l'essere e il fare. La generale frenesia nella quale siamo immersi è nella maggioranza dei casi un sembrare attivi. Sempre di più i giovani, soprattutto con l'adolescenza, cercano e facilmente trovano un'identità del sembrare. Cioè: io sono quello che sembro, quello che conta è ciò che io sono per gli altri, è la mia immagine visibile. Bisogna quindi procurarsi "visibilità" in tutti i modi, attirare l'attenzione visiva degli altri. Taglio e tinta dei capelli, chiodini e anellini metallici in viso, tatuaggi, abbigliamento: tutto ciò che fa immagine è perseguito con una precisione laboriosa, minuziosa, accanita. Paradossalmente, mentre sembra che tutti stiano fissando un display portatile senza mai guardarsi intorno, tutti vogliono invece essere visti e guardati. La società e la vita si riducono a una "messa in scena" ininterrotta, a uno show che must go on, perché ci si senta tutti occupati, attivi, interattivi, dinamici, in movimento verso non si sa quale scopo che non sia l'apparire. Anche i graffiti sono questo: sembrano un linguaggio, simulano un messaggio, ma non significano niente. Così, gran parte delle arti visive sembrano arte, pur essendoci poco da vedere. Ho detto che il Novecento ha creato la civiltà dell'immagine. Ma può venire in mente una pagina dell'Idiota di Dostoevskij (inizio della parte quarta) in cui viene descritta non l'industria della cultura e la sua produzione di illusioni, viene descritto il presupposto psicologico che ne garantisce la diffusione e il potere: «Per l'uomo comune limitato, non c'è niente di più facile che immaginare se stesso come una persona poco comune, originale, e se ne compiace senza avere dubbi. A certe nostre ragazze è bastato tagliarsi i capelli, portare occhiali azzurri e definirsi “nichiliste” per convincersi immediatamente che inforcare un tipo di occhiali equivalga ad avere speciali convinzioni proprie. Ad altri è bastato sentire nel cuore un po' di qualcosa che somiglia a un sentimento umano universale, per convincersi che nessuno meglio di loro è all'avanguardia dello sviluppo sociale. Ad altri ancora è bastato acquisire un'idea qualsiasi, o leggere una paginetta qualunque senza capo ne coda per credere di avere “idee personali” generate dal proprio cervello. La sfacciataggine dell'ingenuità, in certi casi, arriva a livelli stupefacenti».
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