sabato 5 novembre 2022
I gesti, si sa, possono dire più di mille parole. E i gesti che facciamo in qualche modo ci identificano. Il nostro corpo sa parlare, e talvolta contraddice quello che stiamo dicendo. Se sto parlando a qualcuno, e questo qualcuno mi guarda, annuisce, si dice d’accordo con me, ma incrocia le braccia o inizia a battere il piede, posso essere sicuro che come minimo quel che dico non gli interessa per niente. I nostri gesti raccontano senza filtri quello che siamo, quel che sentiamo. Papa Wojtyla, in visita a Trento (se ricordo bene), si presentò appoggiandosi a un bastone. Era una delle sue prime uscite – se non la prima in assoluto – in cui usava un bastone. La folla, quasi a volerlo incoraggiare, iniziò a urlare, applaudire, cantare. Il Papa non riusciva a parlare, e nemmeno sarebbe stato in grado di farlo, perché era impossibile sovrastare quel frastuono non organizzato. Finalmente quella cacofonia divenne un unico ritmico applauso. Giovanni Paolo II iniziò a ridere, e prese a muovere il bastone sullo stesso ritmo, come se fosse il direttore di quella sorta d’orchestra. Ogni tanto accelerava, ogni tanto rallentava, finché riuscì a fermare quell’applauso. E solo allora iniziò a parlare. La potenza dei gesti fisici – perché è di questo che si parla – è davvero impressionante. Gli abbracci ecumenici interreligiosi, per dire, valgono più di cento commissioni di teologi. Il pellegrinaggio a Gerusalemme di Wojtyla nel 2000 resterà nella storia non tanto per i discorsi ma per quel foglietto che volle infilare in una fessura del Muro del Pianto. Così come resterà per sempre la mano appoggiata di Francesco sul muro che divide Israele dai Territori occupati, nel 2014. E i gesti non si imparano «la vita te li insegna», come ha detto Bergoglio rispondendo alle domande dei seminaristi e dei preti che studiano a Roma, ai quali ha voluto riservare qualche giorno fa un lungo dialogo. «Una cosa che ho imparato dall’esperienza personale è che quando vai a visitare un malato, che sta male, non devi parlare troppo. Prendi la mano, guardalo negli occhi, di’ due parole e rimani così. Nell’intervento che hanno fatto a me, in cui mi hanno tolto una parte del polmone quando avevo 21 anni, venivano tutti gli amici, le zie, tutti a parlare: “Vai, vai ti riprenderai presto, parlerai, potrai giocare un’altra volta...”. Mi piaceva, ma mi stufava. Un giorno è venuta la suora che mi aveva preparato per la prima comunione , suor Dolores, brava vecchia, e mi ha preso la mano, mi guardava negli occhi e mi disse: “Stai imitando Gesù”, e non ha detto niente di più. Quella mi ha consolato. Per favore, quando andate da un ammalato, non riempire di motivazioni di promesse del futuro. Il gesto della vicinanza parla più con la presenza che con le parole». Perché, ha detto ancora Francesco, i «gesti si imparano; i gesti della tenerezza li imparerai con i vecchi, andando dai vecchi. Il primo giorno li saluterai così, a distanza. Dopo due, tre volte che vai, li accarezzerai, i vecchietti. Lascia, lasciati esprimere. Lasciare che l’espressione sia totale. Ci sono tre linguaggi che ti fanno vedere la maturità di una persona: il linguaggio della testa, il linguaggio del cuore e linguaggio delle mani. E noi dobbiamo imparare a esprimerci in questi tre linguaggi: che io pensi quello che sento e faccio, senta quello che penso e faccio, faccia quello che sento e penso. Qui uso la parola equilibrio: un equilibrio fra queste cose. A volte ti viene voglia di fare uno scherzo a uno, e ti viene, ma... che sia il gesto con il pensiero e il cuore e le mani». © riproduzione riservata
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