Da Giuseppe De Rita, presidente del Censis, è venuto un invito che vorrei commentare e rilanciare. In un breve intervento di domenica scorsa sul "Corriere della sera", intitolato «Questa politica della perfidia che sta stancando i cittadini», il sociologo propone «un governo dei miti», dei non cattivi, dei non aggressivi, di coloro che non sono soggiogati dall'istinto di mordere, di diffamare, di zittire, di umiliare e fare fuori l'avversario politico. De Rita sa bene che si tratta di un sogno, di un'utopia. Ma l'idea aiuta a capire la necessità di rovesciare o correggere radicalmente il costume, lo stile della contrapposizione e della comunicazione politica in Italia.
De Rita non si pone l'interrogativo se l'avversario meriti o meno la cattiveria con cui lo si contrasta. Ma il bello è proprio qui. La mitezza viene proposta in se stessa come virtù politica utile proprio perché quasi sempre anti-politica: «Immagino lo sghignazzo con cui i cultori della cattiveria a oltranza leggeranno questa uscita in controtendenza rispetto alla realtà mediatica in cui essi regnano» dice De Rita. Ma vorrei ricordare che il nostro maggiore filosofo della politica nell'ultimo mezzo secolo, Norberto Bobbio, ha scritto un Elogio della mitezza che ha sorpreso e affascinato i suoi lettori in Italia e all'estero. Bobbio introduce fra l'altro una distinzione tra virtù forti e virtù deboli. Le prime (tra cui il coraggio, la fermezza, la generosità) sono virtù «regali», aristocratiche. Comunque, virtù pubbliche. Le virtù «deboli» (come l'umiltà, la moderazione, il pudore e, appunto, la mitezza) sono piuttosto virtù «proprie dell'uomo privato, dell'insignificante, dell'inappariscente, di chi nella gerarchia sociale sta in basso, non detiene potere su alcuno, talora neppure su se stesso».
Che cosa è successo in Italia? È successo che tutta la società, anche chi non ha potere, si è messa a imitare chi ce l'ha e magari indecentemente ne abusa.
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