L’asinello del presepio mi ha sempre commosso. Potrebbe chiamarsi Platero, come quello di Jiménez. Oppure Benjamin, come quello di Orwell. La cosa più naturale è che fosse uno degli anonimi somarelli dell’accampamento dei pastori e che abbia ascoltato, insieme a loro, l’annuncio dato dagli angeli: «Non temete. Ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore.
Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia» (Luca 2,10-12). Probabilmente all’inizio lui semplicemente si unì all’eccitazione dei pastori, incoraggiato dal loro trambusto festivo nel cuore della notte, animato dai loro canti. Ma poi si accorse che sul suolo, davanti alle sue zampe, compariva la traccia luminosa di una stella che lo chiamava. Si sa che gli asini possono fare solo quattro chilometri all’ora, ma avanzando per scorciatoie di sentieri sulle quali soltanto loro sanno arrischiarsi.
Per questo, quando i pastori arrivarono alla visione del neonato, lui era già là, come una figura del presepio. Accovacciato a terra, proteggeva con il calore del suo pelo la giovane puerpera e quel figlio. I suoi occhi grandi non si staccavano dal piccino, nemmeno per un secondo. Estasiati, assistevano al rinascere del mondo.