È da lunedì che la Misericordia et misera occupa un post ogni tre che scorrono sugli schermi dei miei dispositivi digitali, e ciò in gran parte a motivo delle deformazioni che, a proposito dell'estensione a tutti i sacerdoti della possibilità di assolvere dal peccato di aborto, sono state veicolate dai titoli dei media mainstream. Al di là dunque di ogni sforzo (e “Avvenire” ne ha fatti molti) perché tale decisione sia intesa per quel che è, e non per quel che non è, possiamo chiederci cosa spinge il sistema dei media a comportarsi così.
Per rispondere val la pena mettere in parallelo questa enfasi e queste deformazioni con quelle che, non da due anni ma da venti almeno, caratterizzano le notizie intorno alla condizioni che regolano l'ammissione dei divorziati risposati alla comunione eucaristica. Anche prima delle aperture pastorali discusse nei due ultimi Sinodi e trascritte nell'Amoris laetitia, ogni presa di posizione del magistero sull'argomento, per quanto ribadisse i punti sanciti nella Familiaris consortio, veniva presentata con clamore e contorno di interpellanze ai più vari “opinionisti” del momento. Dov'era la notizia? E soprattutto, perché il problema di una minoranza (i divorziati risposati praticanti) era (è) così sentito dalla più vasta opinione pubblica? Così, in un certo senso, è successo oggi in materia di aborto. Dov'è la notizia, secondo le logiche strettamente mediatiche?
La risposta sta, credo, nel valore di “termometro della secolarizzazione” che la regolamentazione del divorzio e dell'aborto da parte della legge civile ha assunto, a suo tempo, in Italia (e negli altri Paesi di forte tradizione cattolica). Se ci si limita a leggere la Chiesa solo come forma giuridico-politica, non si può che misurare ciò che essa insegna in tali materie con il medesimo termometro. La Chiesa che pratica la misericordia non fa notizia, tutto sommato: fa il suo mestiere. La Chiesa che “si adegua” alle leggi civili, specie se le ha lungamente contestate, fa notizia. Anche se non è vero.
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