Martedì a Milano, il mondo della pallavolo e dello sport del nostro Paese ha salutato, per l’ultima volta, Julia Ituma. Un addio straziante, come strazianti sono stati tutti questi giorni passati dall’alba del 13 aprile, quando Julia è stata trovata senza vita davanti all’ingresso del “Volley Hotel” di Istanbul. La pallavolo ha accompagnato, fino all’ultimo istante, tutta la brevissima vita di Julia: c’era quel giorno all’oratorio di San Filippo Neri a Milano, dove poco più che bambina scoprì la sua passione per quello sport, c’era negli anni al Club Italia dove, da adolescente, aveva capito che quella passione era accompagnata da un gigantesco talento, c’era nella trama delle maglie azzurre e delle vittorie con le nazionali giovanili, c’era nel confronto, ormai alla pari, con quelle campionesse che da bimba ammirava, in A1 e in Champions League. Il volley c’è stato fino all’ultimo istante di vita, con quella grande scritta sopra l’ingresso: “Volley Hotel” e c’era, ai funerali, con tutto il suo carico di dolore e di incredulità. Perché quando muore, in un modo così tragico, una ragazza di diciotto anni esplode uno tsunami di dolore e tutto sembra dannatamente incomprensibile.
Di Julia avremmo dovuto parlare a lungo, ma per le sue imprese sportive: una predestinata, un’atleta sulla quale qualsiasi allenatore avrebbe scommesso a occhi chiusi. Era solo questione di tempo, sarebbe stata una grandissima protagonista del nostro campionato e della nostra nazionale. Pochi mesi fa era stata premiata come miglior giocatrice dell’europeo Under 19 vinto dalle nostre azzurre, anche grazie a lei. Tuttavia, noi adulti pseudo esperti di qualcosa, siamo sempre desiderosi di vaticinare il futuro dei nostri ragazzi, ma troppo spesso non siamo in grado di leggere il loro presente.
Ed è nel presente che ci è sfuggita Julia, sfilata via nel silenzio di una notte di primavera in Turchia. Nello stesso modo in cui sfuggono tanti studenti e studentesse universitari che soffrono oltre misura degli insuccessi scolastici o a cui il futuro sembra una montagna troppo alta da scalare; nello stesso modo in cui sfuggono via tanti e tante adolescenti che si rifugiano nei circuiti elettronici di uno smartphone. Noi adulti, padri, madri, allenatori, politici, insegnanti dobbiamo curare quello strabismo che ci spinge a concentrarci così tanto su ciò che i nostri ragazzi dovranno essere, rischiando di perdere di vista ciò che sono. Julia ci ricorda con agghiacciante chiarezza che quel presente è l’unica cosa che conta è che a quell’età sembra eterno, come sanno tutti coloro che hanno avuto diciotto anni.A diciotto anni se provi dolore sei convinto che sarà così, inevitabilmente, per tutta la vita.
Julia, in quella notte turca, voleva urlare che in questa società iper-competitiva può soffrire anche chi è destinato al successo. Invece, dopo un ultimo sguardo allo smartphone, ha scelto il silenzio. Lo stesso silenzio che si è sentito, per un minuto, su tutti i campi di pallavolo del Paese e che, per dare un senso a questa tragedia, deve ricordare a noi adulti di amare incondizionatamente il presente dei nostri ragazzi e a loro di ricordare sempre che, bello, brutto, facile o difficile che sia, c’è un mondo intero da scoprire fuori da quel telefonino.