Gennaio '43. Marciavano da giorni, sfiniti, nella neve gli alpini della Julia, nella Sacca del Don. «Venuta l'alba, non appena superato un crinale, arrivammo a un tiro di schioppo da cinque o sei alpini seduti o accucciati a cerchio. In mezzo agli alpini c'era un resto di fuoco, c'erano ancora delle braci accese. Gli alpini erano tutti morti, uno aveva una gamba nuda e interamente blu. I corpi erano irrigiditi come l'assideramento li aveva colti e fulminati, facevano un tutt'uno con la neve e il ghiaccio. Uno di noi, un friulano, commentò: “Can da l'o.. di un duce”. Non fu detto altro. Con la coda dell'occhio, camminando, guardai l'ultimo. Aveva gli occhi pieni di brina». Sto rileggendo il diario della Ritirata di Russia di mio padre, Egisto. Perché quelle immagini di colonne di carri armati nella neve in Ucraina, impantanati nel fango oppure con le bocche di fuoco puntate sulle città, mi ricordano tragicamente il suo racconto. Io ero certa, papà, che simili guerre in Europa non fossero più possibili. Non con i cannoni, non con i soldati macellati ai margini della strada, e i civili in fuga sotto la neve. M'avessero detto che ci sarebbe stata questa guerra, questa vecchia guerra come nel Novecento, non ci avrei creduto. E penso a quei ragazzi sui tank e sotto i cingoli, russi e ucraini, nella neve a morire. Di nuovo. Hanno l'età dei miei figli. Mandati a morire come voi, papà, di nuovo.
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