A Mosca, nella chiesa di San Giovanni il Guerriero, davanti all’ambasciata francese, partecipai a una funzione religiosa. Due ore di lodi a Dio. La folla assiepata sotto l’iconostasi. Centinaia di candele crepitanti vendute a pochi rubli in una guardiola all’entrata. Profumo d’incenso più dolce del nostro. Icone dovunque, ai lati, davanti e dietro. Il giovane diacono, alla testa dei fedeli, guidava la preghiera, il coro pronto ad accompagnarlo. Il pope, magro, austero, coi capelli bianchi e lisci pettinati all’indietro, appariva ogni tanto, di là dalla porta regale. Era un officiante, pareva un attore di teatro: ogni volta che apriva la porta regale per offrire alla nostra vista l’altare dorato, si scatenavano inchini e segni di croce con deferenza orientale di origine antica. In Russia non c’è stato umanesimo. Il senso dell’individuo è cresciuto come una pianta selvaggia. Ripensai alla messa quando vidi Ivan, l’elettricista venuto a fare una piccola riparazione nella casa in cui ero ospite. In tuta, tatuato, agiva con efficienza misteriosa. Percepii in lui una concentrazione speciale: il silenzio dei lupi e degli orsi. Una parte di noi che se n’è andata. Il Dio della foresta, imperscrutabile, prima della venuta di Cristo. Quell’uomo avrebbe potuto ringhiarmi contro o mettermi in salvo.
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