Un anno fa ha dovuto lasciare la cattedrale di Loikaw insieme alla sua gente, proprio la sera della festa di Cristo Re, a cui la chiesa è dedicata. Quella notte i militari birmani stavano sparando intenzionalmente e ripetutamente pezzi d’artiglieria da 120 mm contro il Centro pastorale dove erano rifugiate centinaia di persone. Così anche monsignor Celso Ba Shwe ha preso la strada della foresta, per diventare sfollato tra gli sfollati. Sta trascorrendo, dunque, il secondo Avvento lontano dalla sua città divenuta ormai fantasma, questo vescovo che vive il suo ministero girando tra le tende e i rifugi di fortuna dove vivono migliaia di persone nello Stato Kayah, nella parte orientale del Myanmar, non lontano dal confine con la Thailandia. Monsignor Celso – 60 anni, alla guida della diocesi di Loikaw dall’estate del 2023 – è uno dei volti simbolo del Calvario di questo Paese fatto precipitare nella guerra civile dal colpo di Stato della giunta militare che il 1 febbraio 2021 ha cancellato la fragile transizione alla democrazia incarnata dalla premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, tuttora agli arresti in una località sconosciuta. Ogni settimana papa Francesco non manca mai di nominare anche il Myanmar nei suoi appelli per la pace nelle aree sfigurate dai conflitti. Ma è davvero tra i pochi a ricordarsi di questo angolo del mondo. La verità è che – a ormai quasi quattro anni dal suo inizio – quello nell’ex-Birmania è oggi un conflitto che si trascina con il suo carico di più di 5.300 morti tra la popolazione civile e oltre 3,3 milioni di sfollati. I generali di Naypyidaw – la capitale “ufficiale” voluta dal regime per sostituire Yangon – hanno accusato il colpo dell’alleanza tra le diverse milizie etniche in molte parti del Paese, ma cercano di mantenere ugualmente la presa sulle aree che ancora controllano. La Cina li sostiene ma, contemporaneamente, prova a mediare con le milizie, con cui da tempo ha stretto rapporti: più che alla pace, sembra guardare alla salvaguardia dei propri interessi economici in Myanmar, che sono importanti. Nel frattempo (con anni di ritardo, e proprio oggi che è più debole) alla Corte penale internazionale è giunta la richiesta di arresto per Min Han Hlaing, il capo della giunta militare birmana, per le violenze compiute dall’esercito contro i Rohingya che nel 2017 portarono all’esodo di massa di queste popolazioni musulmane dallo Stato del Rakhine verso il vicino Bangladesh. Ma è decisamente surreale che la Corte discuta solo su fatti di sette anni fa, mentre il Myanmar nel frattempo ha vissuto un colpo di stato e tuttora sono in corso altri massacri. Dentro a questo scenario complicato c’è la vita faticosa ma salda nella fede della folta comunità cattolica in esilio da Loikaw. Prima della guerra in tutto lo Stato Kayah i cristiani erano oltre 90mila su una popolazione di 350mila abitanti. Anche molti di loro oggi combattono nelle People's Defence Forces (Pdf) contro l’esercito birmano. «Ma i nostri giovani sanno che la guerra non è la soluzione per ottenere uno Stato democratico – raccontava ad AsiaNews monsignor Celso qualche settimana fa –. Abbiamo bisogno del dialogo. Quello che vuole e che chiede la Chiesa è che le Pdf si presentino come un gruppo unito. Un giorno forse. Per adesso è ancora molto difficile». «Molti mi chiedono : “Vescovo, quando torniamo alla cattedrale?” – aggiungeva il presule –. Io rispondo che la Chiesa non è un edificio. Quando le persone stanno insieme, si prendono cura gli uni degli altri, quando si amano, quando condividono: lì c’è la Chiesa».
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