mercoledì 20 agosto 2014
«Chi sono io? Che cosa ho creato? Io tutto ho ricevuto, tutto accolto, ho assimilato tutto ciò che mi passava accanto. La mia opera è quella di un essere collettivo che porta un nome: Goethe». Mancano pochi giorni alla fine della sua lunga e fertile vita. Johann Wolfgang von Goethe, il massimo scrittore di lingua tedesca, autore di romanzi subito famosi nel mondo come I dolori del giovane Werther, di capolavori teatrali e poetici, scienziato, studioso dei colori e di geologia, fondatore del magnifico Museo di Storia Naturale della sua Francoforte, è vecchio, sereno e famoso. Si congeda da questo mondo riassumendo il senso della sua opera: la creazione (del suo genio, che il mondo venera) non è prodotto dell'individuo, ma di una moltitudine (oggi potremmo, cautamente, tradurre, inconscio collettivo) a cui l'uomo di nome Goethe sa attingere. Sa ascoltare, guardare, apprendere, cogliere l'occasione. Il miracolo è nella realtà, nelle pietre, nei fiori, nel cielo, nei misteri dell'anima. Goethe trascura, in questo commosso testamento, il ruolo indispensabile del suo talento straordinario. E la fatica, il travaglio, la perfezione dell'artefice. Tutto ciò che ha creato è stato da lui ricevuto. Goethe, il genio, nella sua umiltà sta affermando che il segreto del genio è un amore illimitato.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: