mercoledì 9 ottobre 2013
Ieri ho detto di qualcuno che ha creduto di riconoscere nella scrittura, sperimentata per l'intera esistenza, la sua vocazione ultima e più autentica; e giunto in tarda età ora sente che la capacità di scrivere lo abbandona: giorno dopo giorno, parola per parola, immagine per immagine - ma a volte con dolorosi strappi. Così lui si accorge di venire separato per sempre dalla felicità, unica, d'essere se stesso dando vita a qualcosa che cerca una sua peculiare, specifica verità: a qualcosa che altrimenti non esisterebbe. Cosa può fare questo vecchio che si vuole e si crede scrittore e non si riconosce in altro? Lo insegna da oltre duemila anni un Maestro crocefisso in Palestina: la salvezza sta nell'accettare la croce che si porta. E come la si accetta? Per capirlo, e viverlo, può essere d'aiuto anche un pagano: il filosofo e imperatore di Roma Marco Aurelio. Il quale, circa un secolo e mezzo dopo Gesù, ha esortato ogni suo interlocutore ad «amare» sempre «le vicende che a te accadono, ciò che è tessuto insieme col filo stesso della tua vita». Ecco: amare. Amare la propria vicenda, per quanto dolorosa sia: in ogni suo aspetto, in ogni suo senso. Ami dunque lo scrittore finito il silenzio che sempre più lo avvolge; e dentro di esso cerchi di ascoltare la parola che conta.
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