Nel giro di pochi mesi ho perso due di quelli che io chiamo “i miei compagni di strada”. Arrivati all’ultima fermata della vita, sono scesi, senza fare troppo rumore, discretamente. Uno per un infarto, improvviso e fulminante, l’altra per le complicazioni intervenute - come mi ha scritto il marito - dopo che le era stata impiantata la Peg, ossia la sonda per mangiare saltando la bocca e l’esofago; in teoria una cosa “innocua”, che anzi dovrebbe aiutare chi ha la Sla a vivere meglio, senza il rischio che un boccone andato per traverso ti uccida (la Sla, tra le altre cose, azzera la capacità di deglutire). Li avevo conosciuti, come gli altri miei compagni di strada, una decina in tutto, grazie ai miei “Slalom”, e ci tenevamo in contatto regolarmente via Wathsapp, email, Facebook.
Credevo, fra tutti, di essere quello nelle condizioni peggiori, ma evidentemente mi sbagliavo. O, per dire meglio, lo sono da un punto di vista clinico, ma “la bastarda” (come familiarmente chiamiamo tra di noi la Sla) è davvero una malattia infame, che ti può prendere in qualunque momento. In questo momento ci sono, tra un minuto chissà. E intendo davvero un minuto, sessanta secondi. In teoria questo è così per tutti, certamente. Ma per chi ha la mia stessa malattia lo è un po’ di più.
Il senso di precarietà che ti dà la Sla è assoluto e implacabile. E se per caso, magari anche solo per un attimo, te lo dimentichi, o ti distrai, ci pensa lei a riportarti con i piedi per terra. La cosa buona è che lo sappiamo tutti, e pure molto bene, e dunque nessuno si fa troppe illusioni. Nonostante questa consapevolezza, quando parliamo tra noi “compagni di strada” non parliamo mai della nostra data di scadenza. Non sappiamo qual è, ovviamente, ma sappiamo che c’è, perché ce l’ha appiccicata addosso la Sla, che non ci lascerà invecchiare serenamente. Forse è un meccanismo d’autodifesa, non lo so, o forse è solo un ricadere nell’umanissima illusione d’immortalità che tutti conosciamo, o forse un modo inespresso per farci coraggio gli uni con gli altri, ma della morte, tra noi compagni di strada, non si parla.
Eppure io riesco a parlarne con tutti, e anche a scriverne, ma non con loro. Parliamo invece delle nostre storie, della scoperta della malattia, di sedie a rotelle e delle battaglie quotidiane con la burocrazia, e ci scambiamo consigli sugli integratori, questo funziona bene, quest’altro non mi ha fatto niente, ma tu prendi ancora il riluzolo... cose così. E sappiamo benissimo cosa voglia dire quando qualcuno non si fa più vivo. Sappiamo che il sipario è calato. Ci dispiace, ma un po’ li invidiamo.