Le donne Mapuche amano vestirsi di colori: le sottane a fiori, le camicie sgargianti, le fasce tintinnanti di gingilli e fiocchi a trattenere i capelli. Così anche Rosario si presenta all’appuntamento online su Teams indossando una maglia fucsia e grandi occhiali dalla montatura variegata. Anche lei è una Mapuche, appartiene cioè al “popolo della terra” insediato nell’estremo sud del continente latinoamericano. Parla da Malalhue, villaggio di 3.000 abitanti nella regione cilena di Los Rios. Ha scelto con determinazione quel posto e quel lavoro, alla soglia dei 60 anni, metà dei quali trascorsi a Roma. «Non è stata la nostalgia del mio Paese, che ho lasciato in piena dittatura quando avevo 23 anni – racconta –. Volevo riguadagnare i miei spazi, coltivare le rose, riscoprire il contatto con la natura». Per Rosario del Pilar Reuque Paillalef, che prima a Roma per 30 anni e dal 2019 in Cile lavora per la ong Comi (Cooperazione per il mondo in via di sviluppo, socio Focsiv), dopo aver frequentato l’associazionismo per l’integrazione delle donne sudamericane migranti, è stato naturale assumere l’incarico di coordinatrice di un progetto per la salvaguardia della cultura e delle tradizioni della etnìa originaria, di cui aveva scoperto con prepotenza le radici dentro di sé.
Rosario del Pilar Reuque Paillalef - R.d.P.
I Mapuche – secondo un recente censimento in Cile sono circa 600mila – vivono in comunità familiari, si dedicano soprattutto all’agricoltura e all’artigianato, ma l’esodo massiccio verso le città, sommato alle discriminazioni di cui sono vittime, ha travolto le loro tradizioni e la loro stessa esistenza. Le terre sono state abbandonate, così la lingua e quel rapporto intenso, ancestrale con la natura.
«Per recuperare la vita insieme abbiamo creato un orto comunitario di un ettaro, che è stata la salvezza durante il Covid. Le persone sarebbero morte di solitudine se non avessero avuto un posto dove andare», racconta. Hanno piantato fagioli, una produzione che non c’era. «Abbiamo deciso dopo un sondaggio: nessuno aveva mai mangiato legumi. La nostra alimentazione è vulnerabile: tutto quello che mangiamo arriva dagli Usa e dal Brasile, mancano le verdure, e invece abbonda il pollo importato, pieno di ormoni». Ora gli orti comunitari sono tre, assegnati direttamente ai nativi, con due scuole in cui si insegnano le tecniche dell’agro-ecologia, alla riscoperta di quell’armonia tra uomo e natura che era la cifra del “popolo della terra”.
Rosario, tra le altre cose, coordina un gruppo di ragazzi italiani che svolgono il Servizio civile: con loro propongono ai giovani della comunità Mapuche laboratori musicali e teatrali, e alle donne corsi per recuperare le tecniche tradizionali della filatura della lana. Un lavoro enorme, appassionato, dai risultati incerti e lenti: ma oggi gli indios della comunità di Lanco, adiacente al villaggio di Malahue, hanno orti familiari, verdure a disposizione e anche piccoli spazi per vendere ciò che è in sovrappiù e i prodotti artigianali in lana e ceramica. «Tentiamo anche di riscoprire e insegnare la lingua Mapuche, altrimenti destinata a perdersi visto che oggi è parlata appena dal 10 per cento della nostra etnìa. È una goccia nel mare, il cambiamento delle abitudini richiede molto tempo», ammette Rosario, ma è evidente che lei è una che non si arrende. Del resto ha scelto di dedicare la seconda parte della sua vita ad andare alle radici della storia cilena, che è anche la sua storia personale.
Lo Stato fa la sua parte: da qualche decennio – e poi nella nuova Costituzione in itinere – esistono leggi che tutelano le minoranze etniche, già provate dalle discriminazioni, dall’espropriazione dei loro territori e dagli insediamenti delle multinazionali delle estrazioni. «È essenziale che la cultura Mapuche continui a esistere, con il suo richiamo all’armonia nel mondo, con la sua cosmovisione che ci obbliga a pensare al collettivo e a non sentirci padroni di ciò che abbiamo».