Lo ricordo come fosse ieri, il mio matrimonio. Naturalmente avevamo finiti i soldi, anche per avere acceso un mutuo per la casa, che sarebbe durato trentacinque anni. Il paesino scelto era quello dove i miei erano sfollati durante la guerra, la chiesetta con abside e campanile romanico era completamente fasciata dalla nebbia, perforata a tratti dai muggiti nelle stalle limitrofe. Come decorazione floreale, la signora Cunegonda, sacrestana novantenne, aveva messo sulle prime panche, ramoscelli di edera. Don Francesco Giuseppe, il celebrante, aveva la firma lunga come quella dell'imperatore d'Austria. I saluti sono avvenuti poi, a qualche chilometro da lì, nell'aulona centrale di una scuola materna prestataci. Elena, la sposa, si perse nella nebbia e sostituì da sola la ruota bucata. Arrivò con le mani nere di grasso fino ai gomiti. Cinque torte della zia, un paio di salami, bottiglioni di barbera erano il menù. La chitarra accendeva e spegneva cori qua e là. Partimmo per le valli bergamasche. Ricordo, in pieno inverno, l'orrido chilometrico come un canyon dantesco. All'appello della foto ricordo, ora già risultano degli assenti. Quanto a noi, non abbiamo combattuto insieme la buona battaglia; da soli è difficile di più.
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