Il 31 marzo del 1878, esattamente 140 anni fa, era domenica. A Galveston, Texas, nasceva da una famiglia di ex schiavi, John Arthur Johnson, diventato poi famoso come "Jack". Famoso, sì, grazie alla boxe. Anzi, come affermato dal regista Ken Burns, «per più di tredici anni, il più famoso afroamericano sulla Terra». Passò la gioventù a combattere nelle Battle Royal, incontri tra pugili di colore che avevano come unico scopo quello di intrattenere un pubblico di bianchi.
The Galveston Giant (Il gigante di Galveston) smise presto di accontentarsi di quelle esibizioni circensi, dove i pugili combattevano qualche volta bendati, o con una mano legata dietro la schiena, per il divertimento dei "padroni" bianchi, seduti intorno a ring più o meno improvvisati, con i loro cappelli panama, il sigaro in bocca e che, talvolta, lanciavano monetine sul ring con spregio e volgare divertimento. No, non era quello ciò che sognava Jack Johnson: lui desiderava fare il professionista, nonostante in Texas il professionismo pugilistico fosse proibito.
A 19 anni, e contro la legge, iniziò a combattere match veri e nel 1901 venne arrestato insieme al suo avversario, il veterano Joe Choynski, con il quale fece amicizia nei 25 giorni di cella e che accettò, intuendone il talento, di diventarne l'allenatore. Il campione dei massimi James J. Jeffries si rifiutò di combattere con lui a causa del colore della sua pelle, ma il primo titolo mondiale (nella categoria dei soli atleti di colore) arrivò nel 1903.
Cinque anni dopo Johnson trovò finalmente un bianco pronto a raccogliere la sua sfida: il pugile canadese Tommy Burns accettò di incrociare i guantoni con lui in un incontro organizzato in Australia, nel 1908. Fu la polizia a interrompere il combattimento dopo 14 riprese, davanti a un mare di tifosi. Un pugile nero per la prima volta divenne campione del mondo sconfiggendo un bianco e il Governatore del Texas fece proibire la diffusione della pellicola di quella vittoria, per timore di tumulti razziali.
Passarono altri due anni, le voci circolavano e non si poteva più aspettare. Il vecchio campione e leggenda vivente per tutti i bianchi degli Stati Uniti, James J. Jeffries (proprio colui che aveva rifiutato di combattere contro Johnson perché nero) si era già ritirato da sei anni. Tuttavia molto denaro, un'enorme reputazione da difendere e il desiderio di riscattare l'orgoglio dell'intera razza bianca lo convinsero a perdere 45 kg di peso e accettare la sfida. Il match, il primo vero combattimento del secolo, si disputò il 4 luglio del 1910 a Reno nel Nevada. Andarono in 20mila a vedere quell'incontro, quasi tutti bianchi. Per questioni di ordine pubblico ogni spettatore fu perquisito, furono proibite le armi da fuoco così come fu proibito la vendita di bevanda alcoliche.
Tutti, pare anche la malavita, scommettevano sul fatto che The Great White Hope (la grande speranza bianca) James J. Jeffries avrebbe rimesso ogni cosa al suo posto. Invece, già dal 4° round, un tremendo uppercut aveva fatto intuire che quel giorno sarebbe cambiata la storia. Il match finì al 15° round, dopo che Jeffries per la prima volta in carriera era andato al tappeto, addirittura due volte. I secondi dell'eroe bianco furono costretti a gettare la spugna per risparmiargli un ko, ma non evitarono il senso di umiliazione di un popolo intero. Mentre la gente di colore festeggiava per le strade degli Stati Uniti, scoppiarono tumulti, tentativi di linciaggio, disordini in 25 Stati e oltre 50 città. Morirono 25 persone, quasi tutti afroamericani e centinaia furono i feriti.
Johnson aveva riscattato secoli di oppressione, lui un campione nel senso moderno del termine a cui piacevano molto le interviste, gli abiti di sartoria, le belle donne e le automobili veloci. Lo riportò a terra un cowboy di due metri, Jess Willard, razzista e xenofobo, che lo mise al tappeto a L'Avana il 5 aprile 1915 alla 26esima ripresa di un match di 45 (!), di fronte a una folla immensa. Ma Jack Johnson, almeno un po', il mondo aveva inevitabilmente iniziato a cambiarlo. Dopo essersi visto dedicare poesie, film, documentari, un disco da Miles Davis e avere ispirato un paio di generazioni, morì nel 1946 vittima di un incidente stradale, mentre guidava affamato e arrabbiato perché un ristoratore della Carolina del Nord aveva rifiutato di servirgli il pranzo a causa del colore della pelle. Aveva fatto tanto, ma probabilmente morì con addosso la sensazione di quanto ci fosse ancora da fare.
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