Fra tutti i fiori non ce ne sono due che si assomigliano e che possano dirsi uguali, se non per l'abbandono che essi fanno di se stessi all'opera del giardiniere.
È curiosa la genesi dell'opera più famosa del gesuita Jean-Pierre de Caussade (1675-1751), grande maestro spirituale: L'abbandono alla Provvidenza (riedito recentemente da Piemme) non fu mai scritto in senso stretto dal suo autore, bensì da padre E. Ramière che, nel 1861, raccolse una sequenza di frasi e brani desunti dalle lettere di direzione spirituale di padre de Caussade. Abbiamo scelto da quell'antologia un frammento con un'immagine suggestiva. Affascina sempre il lavoro del giardiniere che sa tagliare senza ferire, curare senza prevaricare, attendere senza disperare. Già Isaia e lo stesso Gesù dal vignaiolo hanno tratto parabole e simboli religiosi straordinari. Ma qual è la lezione che ci insegna il gesuita francese?
I fiori sono simbolo delle creature umane con la loro libertà, la loro diversità fisica e interiore, la loro carica di bene e di male. Esse sono affidate alle mani di Dio che si china su di loro ed esse non possono ignorare questo passaggio. Anzi, la loro bellezza sboccia proprio dall'essere consegnate a quell'azione che comprende il sanguinare della potatura nel giorno della prova ma anche il sostegno sicuro nel giorno di vento e di sole. Ecco l'"abbandono" necessario, raffigurazione della fede che è fiducia. C'è, dunque, una certezza da ricostruire dentro di noi: non siamo abbandonati a noi stessi ma a una presenza invisibile eppur efficace, sorgente di pace. Scriveva ancora de Caussade: «Niente può sfuggire al divino sguardo; esso si posa sui più piccoli fili d'erba come sopra i cedri. I granelli di sabbia sono sotto i suoi piedi così come le montagne; ovunque voi posiate il piede, lui è passato».
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