L’Hotel Savoy oggi non c’è più. Sanremo, via Nuvoloni 44: fu l’indirizzo che cercai quando il giornale mi mandò a seguire il primo di molti Festival. Non per le canzoni, ma per annusare quello che c’era intorno. Cercavo un fantasma, trovai le mimose gialle e imperterrite dietro un cancello diroccato. Era, mi pare, il 1997: quel che restava del Savoy giaceva in salita, scomodo come il tentativo di costruirci sopra una leggenda. Lì, nella notte del 26 gennaio del 1967 trovarono il cadavere di un cantautore geniale. Si chiamava Luigi Tenco, era appena stato bocciato dalla giuria popolare ed escluso dalla gara.
Neppure la camera 219, ovviamente, c’era più. Anche se molti negli anni l’avevano cercata, andando a caccia di brividi macabri ricamati attorno a una vicenda mai chiarita. Un colpo di pistola alla testa poche ore dopo aver cantato “Ciao amore ciao”: un suicidio, ma con un’imperizia tale nelle indagini, come scrissero allora, «da autorizzare ogni sospetto».
L’albergo, diroccato e immobile, era prenotato dalle ragnatele ed esaurito dalla muffa. A conferma che memoria e rispetto non sono più di questa terra, di Luigi Tenco al Savoy di Sanremo erano rimaste solo le persiane sbrecciate che penzolavano come ciglia finte dopo un’alba di sbornie. E, sul tetto, l’insolenza dei gabbiani che, smentendo Jonathan Livingstone, più che volare lasciavano altri e meno poetici ricordi.
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