Leggo qualche racconto
di Cechov in Russo,
un’edizione bilingue per risparmiare il tempo di consultare il vocabolario per le parole che mi mancano. Cechov gronda di aggettivi, descrizioni, periodi lunghi che esplorano dettagli, forme che possono affaticare un lettore moderno, eppure i suoi personaggi restano piantati sulla pagina come alberi, unici, radicati dentro il loro tempo. A me fanno venire desiderio di espiantarli e trasferirli nel mio. Da lettore ho capacità di affezionarmi a degli sconosciuti più di quanta ne abbia nella vita. Del resto la vita non si preoccupa di presentarmi così precisamente degli sconosciuti. Dev’essere questo il motivo per cui leggo. Allargo l’ambito di persone da osservare con la massima sfacciataggine. Il lettore è un ficcanaso autorizzato. La sua giustificazione è che in quei momenti è solo. La solitudine è un’attenuante. Cechov offre generosamente la sua capacità di osservatore degli altri, dote che si può attribuire alla sua professione di medico. Le sue storie sono cartelle cliniche dell’umanità. Scrisse di considerarsi sposato alla medicina e di avere per amante la letteratura. Per quanto riguarda quest’ultima relazione è certo che è stato ricambiato.
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