giovedì 30 novembre 2023
Arrivano in ambulanza nei Pronto Soccorso degli ospedali israeliani con i segni dell’infarto: oppressione e dolore al petto, mancanza di fiato. Ma gli esami non trovano un infarto. Si chiama sindrome di Tsako Tubo, dal nome di un vaso giapponese di cui il cuore, in questa patologia, assume la sagoma, allungata. Un ventricolo si deforma tanto che fatica a pompare il sangue. Se la sindrome non viene riconosciuta in tempo, se ne può morire. I media israeliani riferiscono che si registra da quasi due mesi un aumento di questa patologia, normalmente rara, ma che in nove casi su dieci colpisce le donne. Le pazienti vengono da settimane di angoscia per un fratello o un marito detenuto da Hamas, o hanno perduto una persona cara nel massacro del 7 ottobre. O hanno i figli in guerra, e ad ogni squillo del cellulare hanno paura. La sindrome di Tsako Tubo spesso viene presa in tempo, e si sopravvive. Ma altro non è che ciò che una volta si chiamava “morire di crepacuore”: quando un bambino in casa si spegneva, o un padre non tornava e veniva dato per disperso al fronte. Ancora non del tutto chiari come i messaggeri chimici dell’organismo possano “mimare” un infarto - anche se chiunque abbia provato un grande dolore o una profonda angoscia riesce a immaginare che quel male schiacciante che si avverte in sé intossichi, avveleni. Singolare però come il moderno nome del crepacuore riguardi quasi solo le donne: colpisce le madri, le mogli, quasi che nel femminile anche la sofferenza fosse profondamente dentro la carne, viscerale, come lo è partorire un figlio. Forse di questo male del cuore delle donne, identificato solo una trentina di anni fa, ci si accorge in Israele perché gli ospedali sono attrezzati come in Occidente. Ma il crepacuore esisteva da millenni, in ogni luogo percorso da una guerra, da un’epidemia o da una catastrofe naturale. Si diceva, di una madre che moriva appena dopo il marito o un figlio, nelle campagne, “è morta di crepacuore”, e nessuno se ne meravigliava. A Gaza non ci sono quasi più autentici ospedali, ma solo semidistrutti, o da campo, in cui si ammucchiano insieme feriti, profughi e moribondi. Non c’è modo di fare troppe analisi. Ma siamo certi che anche al di là del fronte quella sindrome vada dilagando: solo, non ci sono medici a riscontrarla. E in Ucraina, nelle terre contese ai russi e ormai sotto la neve, nei rifugi gelidi in cui le donne faticano a sfamare i figli? Quanto logorano quasi due anni di guerra e stenti, gli uomini al fronte, e vivi o morti, chissà dove? E quelle cui i figli bambini sono stati rapiti e deportati in Russia, anche a loro un tarlo non mina il cuore, oppresso come si spezzasse? E nelle dimenticate province dell’ex impero sovietico, dove i giovani delle minoranze etniche vengono arruolati e mandati a combattere senza avere mai visto un fucile, come batteranno i cuori delle madri, delle nonne, in attesa di notizie che non arrivano, o arrivano, infine, solo con lui riportato a casa, morto? Questo ribattezzato ma remoto crepacuore supera ogni frontiera, ogni etnia e religione. Ebree, palestinesi, russe, tartare, e siriane, e afghane, e africane. Un certo modo del dolore morde ovunque nel medesimo modo - però quasi esclusivamente al femminile. Se ci pensi, quel nostro costante parteggiare per gli uni o gli altri sulla base della storia e delle colpe, quel nostro essere “contro” o essere “per”, resta come spiazzato da questo tacito medesimo soffrire delle donne. Non è forse lo stesso dolore il loro, tra le più remote latitudini, nel corso dei secoli? Si vorrebbe, a questa moltitudine ignota, potere essere accanto senza bandiere, senza barriere. In una pietà smisurata per ciascuna, e per tutte.
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