Era già successo al termine della partita Turchia-Albania, di nuovo lunedì sera a Parigi. Fotografie che sono circolate in modo virale, suscitando indignazione in tutto il mondo sportivo e non solo: la nazionale turca di calcio davanti alla propria curva che omaggia i tifosi con il saluto militare. Fanno (quasi) tenerezza questi campioni multimilionari che esprimono, in quel modo, il loro supporto all'azione politica e militare del presidente Erdogan, che ha portato la Turchia all'offensiva militare contro il popolo curdo nel nord della Siria.
Fanno (quasi) tenerezza perché risulta evidente, in più di un caso, una presa di posizione dettata dal timore di ripercussioni, da un clima di terrore che viene loro imposto. Fanno (quasi) tenerezza se paragonati a due grandi sportivi e uomini turchi che invece hanno deciso di disallinearsi rispetto a quell'apologia di regime.
Uno si chiama Enes Kanter, è uno straordinario giocatore di basket, attualmente in forza ai Boston Celtics, nel campionato Nba. Kanter si schiera pubblicamente contro Erdogan già nel luglio 2016, dopo il fallimento del golpe militare, e da quel giorno la sua vita cambia per sempre. Minacciato ripetutamente di morte (non solo da facinorosi), gli viene impedito ogni contatto con la famiglia, gli viene ritirato il passaporto, viene avanzata una richiesta di condanna a quattro anni di carcere per aver definito Erdogan «l'Hitler del Ventunesimo secolo».
L'altro sportivo pensante si chiama Hakan Sükür. Un ex-collega di quei calciatori dal saluto militare facile, non esattamente uno qualsiasi: è, a tutt'oggi, il miglior realizzatore della nazionale turca. Al termine della sua carriera (con esperienze anche in Italia) viene eletto in Parlamento, dimettendosi due anni dopo, prima di andarsene dalla Turchia a causa delle sue opinioni su Erdogan. Se ne va in California dove gli giunge notizia di un ordine di arresto perché ritenuto vicino a un gruppo terroristico. «La mia è una lotta per la giustizia, per la democrazia, per la libertà e la dignità umana. Non mi importa di quello che posso perdere se a vincere è l'umanità».
In un mondo di tiepidi o, peggio, di sepolcri imbiancati, Enes Kanter e Hakan Sükür sono due sportivi che hanno avuto il coraggio delle loro azioni, pagandone il prezzo fino all'ultimo centesimo. Chissà che nottata passeranno, a confronto con la loro coscienza, quei finti soldatini del pallone pronti a scattare sull'attenti per compiacere il loro leader. Lo sport deve restare fuori dalla politica? Credo che fare politica, nel senso più bello e alto del termine, passi attraverso la capacità di schierarsi e di raccontare la propria visione del mondo qualunque sia il proprio mestiere: fare canestri, gol, lavatrici, curare denti o coltivare datteri. «Il coraggio, uno, se non ce l'ha, mica se lo può dare», balbetta Don Abbondio nei Promessi Sposi. Ecco perché fanno (quasi) tenerezza quei ragazzoni che giocano a fare il saluto militare, che la guerra la guardano da dentro un campo di calcio, che sfiorati in area di rigore cadono urlando, mentre in realtà urlano donne violentate, uomini sgozzati, ragazzi i cui brandelli di corpo volano a decine di metri di distanza dopo un'esplosione.
Di fronte ai tiepidi o ai sepolcri imbiancati, valga l'esempio del St. Pauli, società di calcio di Amburgo, ha deciso di licenziare in tronco il centrocampista Cenk Sahin per aver preso pubblicamente posizione a favore di Erdogan. «A motivare la scelta – recita il comunicato stampa del club – è stato il disprezzo verso i valori alla base della nostra società, tra tutti il rifiuto di qualsiasi tipo di guerra».