Si chiamava Jemilson, e la sua faccia me la ricordo ancora. Pelle color cuoio, riccioli sparsi, età percepita tra i 35 e i 50. Sorrideva quando pensava di dire una cosa seria, e restava serio quando raccontava qualcosa che faceva sorridere. L’ho conosciuto nel 2016 su un volo per Rio de Janeiro, in piedi, in fondo all’aereo, dove vanno a rifugiarsi quelli che non riescono a stare seduti tante ore. Aveva i braccialetti al polso, i jeans scoloriti, un po’ di spiaggia negli occhi. E una maglietta bianca con su scritto: se la vita ti dà un limone, fanne una Caipirinha.
Era un brasiliano con l’accento romano, o forse un romano nato in Brasile, «però non ne sono tanto sicuro», come mi spiegò lui, serissimo. In piedi, in fondo all’aereo, non ci stava per la schiena – mi disse – ma perché il volo era pieno e lui non aveva un posto assegnato, anzi non aveva nemmeno il biglietto. Feci finta di credergli. Non sapendo se avessi di fronte un matto o un clandestino, pensai che potesse essere un dirottatore: con le infradito ai piedi e il cappello da pescatore però, era molto improbabile. E poi aveva una voglia matta di chiacchierare, cosa che ai terroristi di solito piace poco. Jemilson, tra le follie che diceva, sembrava essere un uomo felice. E la felicità, a volte, è scegliersi un posto dove stare. Anche solo dietro l’ultima fila di un aereo.
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