La decisione collegiale dei vescovi italiani di modificare la formula liturgica del Padre Nostro ha riacceso, presso la quota di opinione pubblica ecclesiale che si manifesta in Rete, una discussione che aveva tratto inizialmente il combustibile dall'affermazione resa da papa Francesco a don Marco Pozza davanti alle telecamere di Tv2000, il 6 dicembre scorso: «Dio che ci induce in tentazione non è una buona traduzione». Certo, le premesse di tale cambiamento erano esplicite già nel nuovo Lezionario, che la Cei ha introdotto nell'uso liturgico dall'Avvento 2007. Ma allora la Rete era più piccola (quanti, in Italia, erano iscritti ad almeno un social network?) e gli appassionati delle cose di Dio che la frequentavano erano più temperanti. Stando dunque a questi ultimi undici mesi, possiamo ben dire che, tra “influencer” e “influenced”, ben pochi hanno resistito alla tentazione dallo schierarsi in proposito: favorevoli alla modifica, favorevoli a una modifica ma non a questa, contrari alla modifica. Qualcuno, grazie al greco studiato al liceo, si è riscoperto filologo, in particolare intorno alla parola peirasmos (prova, tentazione). Non pochi anche i patrologi e, naturalmente, i teologi: diversi tomisti, altrettanti rahneriani, forse senza neppure saperlo. Tutti, in qualche modo, liturgisti. Il fatto è che il Padre nostro è «la preghiera che Gesù ci ha insegnato» e che tutti abbiamo imparato: quel minimo di cristianesimo che, insieme all'Ave Maria, più condividiamo. Niente, probabilmente, come la sua formula è altrettanto in grado di interpellarci tutti, e di spingerci a prendere posizione, affacciandoci in Rete, da una parte o dall'altra: cambiamento o immutabilità, conservazione o innovazione, Chiesa nel mondo o Chiesa di sempre. I più irriducibili annunciano che continueranno, anche nella preghiera comunitaria, a usare la vecchia formula mentre gli altri fedeli usano la nuova. Ne verrebbe un coro incomprensibile: ma non al Padre, che capirà lo stesso.
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