Ci sono bambini che vengono al mondo contenti. E altri che non paiono soddisfatti del pianeta su cui sono atterrati. Pietro, era di questi ultimi. Debuttò, a pochi giorni, con strilli da aquila nel cuore della notte. Furioso, paonazzo, senza fiato. Noi due, terrorizzati, corremmo al pronto soccorso. Un vecchio medico gli diede appena un'occhiata: coliche del lattante, disse, e ci mandò via con una blanda medicina. (Voltandomi, gli colsi sulle labbra un sorriso: ne avete, ragazzi, di strada da fare). Le coliche di Pietro ci sequestrarono le notti. Alle due quei pianti acuti erano come l'urlo di un sergente, e non c'era che da obbedire. Con mio marito al mattino ci guardavamo sbalorditi: noi fino ad allora viziati, noi liberi, improvvisamente tiranneggiati da uno appena nato. Poi Pietro cominciò con le otiti. Smetteva di strillare, cullato dal movimento, solo se lo si portava in giro in auto. Albe di vacanze in montagna, allora, con le cime attorno a noi che si illuminavano, e il piccolo despota, dietro, finalmente addormentato. Noi stanchissimi ma, in fondo, sorridenti. Avevamo, adesso, qualcuno più caro di noi stessi, cui pensare. Uno per cui avremmo fatto qualsiasi cosa. Il baricentro stesso del nostro cuore si era spostato - o, forse, quell'antro acerbo si era allargato.
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