A Forlì, nelle cui carceri mia madre venne bastonata dai nazisti e mio nonno, Alfredo Cavina, partigiano della 36a Brigata Garibaldi, fu prelevato, insieme ad altri nove prigionieri, per essere fucilato il 26 luglio 1944 a Pieve di Quinta, sulla strada verso Cervia, torno sempre volentieri: i fantasmi del passato danzano con prodigiosa evidenza e io devo soltanto rievocarli nella scrittura per farli vivere ancora. Fra le tante suggestioni non posso dimenticare il volto di Antonia Laghi che conobbi ormai anziana, prima nella sua abitazione non distante dal vecchio aeroporto, poi nella casa di riposo di via Anderlini intitolata a Pietro Zangheri, dove trascorse gli ultimi anni, lucida e appassionata. Partigiana, femminista, antifascista. Andava nelle scuole a raccontare la Resistenza. Da giovane vide il cadavere di mio nonno, lasciato a imputridire sulla strada dai nazisti insieme agli altri con l’intenzione di intimorire la popolazione. Non potendo far altro, in quella estate selvaggia dai cui antri nacque la democrazia repubblicana, con le amiche che l’accompagnavano pose sui poveri corpi in segno di omaggio alcuni papaveri rossi. Quando l’andavo a trovare ci abbracciavamo senza parlare: sentivo che i morti pulsavano dentro di noi, avrebbero voluto intervenire ma non potevano farlo.
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