Che il maggior poeta tedesco dell'Ottocento sia stato un ebreo, Heinrich Heine, non dovrebbe stupirci, se pensiamo alla grande fioritura della cultura ebraico-tedesca tra la fine dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento. Convertito nel 1825 al protestantesimo, per dirla con le sue stesse parole «come biglietto d'ingresso nella società», Heine ben appartiene a quel movimento di assimilazione degli ebrei tedeschi che comincia con la generazione successiva a Mendelssohn, a fine Settecento, e termina con la generazione di Rosenzweig, nel terzo decennio del Novecento. È un momento in cui la cultura degli intellettuali che restano ebrei e quella di coloro che si convertono è assai simile, in cui il passaggio dall'ebraismo al cristianesimo, lungi dall'essere un passaggio radicale da un'identità all'altra, rappresenta solo uno slittamento più o meno lieve verso un'altra dimensione religiosa. Ben lo compresero i nazisti che consideravano le conversioni come un cavallo di Troia ebraico nella società «ariana». E bruciarono, nei roghi dei libri, Heine assieme a Thomas Mann, Schnitzler assieme a Werfel. Nell'intento di bruciarne gli autori perché, come già aveva scritto Heine nel lontano 1817, «chi brucia i libri finirà per bruciare gli uomini».
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