I figli, bisogna imparare a lasciarli andare.
Non è una cosa che avviene tutta in una volta; avviene piuttosto per piccoli strappi successivi, alcuni più dolorosi di altri. Lasciare andare i figli è frutto di una maturazione che richiede un allenamento costante e una vigilanza consapevole su di sé.
Si incomincia già con la nascita: il parto, nel suo svolgersi naturale, inizia con il succedersi ritmico delle contrazioni, che segnano l'alternarsi sempre più incalzante del trattenere e dell'allontanare. Fino a quando la madre avverte l'assoluta necessità e urgenza di espellere il bambino e di lanciarlo fuori di sé, nel mondo, perché si tratta ormai di vita o di morte, ed è necessario per entrambi separarsi per non morire. Quando poi si incontrano dopo la nascita, mamma, papà e bambino devono imparare a misurarsi e conoscersi su un piano nuovo, in un rapporto che diventa ora un vero rapporto a due con tutte le sue contraddizioni: un rapporto più reale e insieme più complesso di quello della gravidanza, quando il bambino era percepito soprattutto come una rappresentazione della mente della madre e del padre.
Dopo questo primo distacco, tanti ne seguiranno in una parabola crescente: il bambino che cammina da solo e che può allontanarsi, il bambino che nel dire “io” si contrappone e si differenzia, l'adolescente che risponde male, che chiude il suo cuore alla confidenza e protegge i suoi segreti, il figlio che si innamora e sposta altrove il baricentro dei suoi affetti. Lasciare andare i figli non significa solo permettere loro di allontanarsi: i loro viaggi, le loro vacanze, i loro progetti, possono ancora essere vissuti senza che il distacco sia avvenuto davvero. Il vero distacco avviene invece ogni volta che i nostri figli spostano il loro baricentro vitale in un luogo che non condividono più con noi, e ogni volta che per trovare se stessi si contrappongono ai nostri desideri e alle nostre aspettative anche buone su di loro. Avviene ogni volta che li sentiamo diventare estranei, ogni volta che sentiamo malintese le nostre intenzioni, ogni volta che rifiutano il nostro aiuto come un'invadenza. Avviene ogni volta che dobbiamo accettare il loro diventare se stessi al di là di noi e sempre più liberi dalla nostra influenza; avviene quando dobbiamo accettare di diventare marginali nella loro vita.
Ma ogni volta, dopo questi passaggi difficili, ci è data sempre anche una grande opportunità: quella stessa che abbiamo già incontrato nella situazione antica della nascita. Come allora, dopo aver sperimentato la fatica del distacco, possiamo e dobbiamo guardare a nostro figlio in modo nuovo, aperti a una nuova relazione. Se da un lato la distanza ci fa soffrire, dall'altro ci permette infatti anche uno sguardo diverso sulle cose: quel figlio che eravamo certi di conoscere ci chiede di guardarlo senza pre-giudizio, con apertura di mente e di cuore. Una estraneità sana consente di vedere le persone che amiamo per se stesse, con pregi e difetti, con la curiosità ed il rispetto autentico che solo la giusta distanza permettono.
È liberante pensare che un figlio divenuto adulto non è mai, come invece tendiamo a pensare, solo lo specchio dei nostri successi e dei nostri errori; un figlio adulto si aspetta che lo consideriamo finalmente responsabile di se stesso, ben al di là di noi. Chiede che lo consideriamo per quello che lui ci dice di essere, che lo amiamo nel modo in cui lui vuole essere amato. Anche al figlio, con l'età adulta è data la stessa nuova opportunità: quella di guardare ai genitori per quello che sono, finalmente liberandoli dalle sue proiezioni infantili. I genitori sono solo altri adulti con i loro limiti e pregi, che hanno fatto quello di cui erano capaci per amarlo. Ora, se lo vuole, il figlio può rispondere a sua volta con libera riconoscenza: così come anche noi possiamo in qualunque momento decidere di fare con i nostri genitori, comunque siano andate, con loro, le cose.
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