I conflitti che vediamo I Giochi che ci servono
mercoledì 19 maggio 2021
Dieci anni fa, il mondo sportivo si stava preparando per i Giochi Olimpici di Londra 2012. Il 25 gennaio 2011, in quel di Losanna, venne siglato un accordo storico, esempio di quella pax olimpica spesso evocata, ma non sempre trasformata in azioni concrete. Quel giorno, nel quartier generale del Comitato Olimpico Internazionale, davanti al segretario dell'Onu Ban Ki-moon e grazie al meticoloso lavoro di mediazione di Mario Pescante, vero e proprio “ministro degli esteri” del Cio, accadde un fatto storico: l'apertura di un dialogo fra lo sport israeliano e quello palestinese. L'accordo prevedeva che impianti e allenatori israeliani ospitassero e aiutassero la preparazione degli atleti palestinesi nel percorso di avvicinamento ai Giochi Olimpici di Londra. Quarant'anni dopo la strage dei terroristi di Settembre Nero che avevano ucciso undici atleti israeliani nel villaggio olimpico di Monaco, lo sport sembrava aver ricucito una ferita. Maher Abu Remeleh, judoka e primo sportivo palestinese a qualificarsi per meriti sportivi, sfilò come portabandiera a Londra, insieme alla sua piccola delegazione, in un clima nuovo.
Nessuna medaglia, nella storia dei Giochi, è mai arrivata per nessun atleta palestinese, sette invece quelle vinte dagli israeliani fra vela, judo e kayak. Tuttavia atleti palestinesi, ai Giochi da Atlanta 1996, e israeliani, prima partecipazione Helsinki 1952, hanno avuto la possibilità di vivere l'esperienza del villaggio olimpico, un luogo dove le separazioni si annullano e i muri non esistono, dove tutti espongono la propria bandiera con orgoglio e rispetto per quella degli altri.
L'accordo del 2011 prevedeva proprio un sostegno concreto alla realizzazione di quel sogno per ragazzi e ragazze come Zakyia Nassar, l'unica nuotatrice palestinese scesa in vasca a Pechino 2008, che si era allenata in una piscina lunga 10 metri (anziché i 50 regolamentari) a causa del divieto da parte di Israele a farle raggiungere Gerusalemme e del sostanziale disinteresse dell'Autorità Palestinese. «E dire – raccontò ai tempi Mario Pescante – che la questione degli allenamenti non era assolutamente fra le richieste di partenza della trattativa. È stata un'offerta spontanea, un grande valore aggiunto a quanto sta accadendo». Già, un valore enorme: quello di far vivere un'esperienza di pace e di risoluzione di ogni conflitto, come quella che si vive nel villaggio olimpico. Perché, è evidente: se è possibile lì, è possibile sempre. Se è possibile lì, allora non è un'utopia.
Questo tormentatissimo percorso di avvicinamento ai Giochi posticipati di Tokyo 2021 si complica ulteriormente, dopo la pandemia, del riaccendersi violento del conflitto fra Israele e Palestina. Un conflitto che sembra infinito e che vede la necessaria legittimazione e ragione di due popoli, non trovare soluzione attraverso la forza. Lo sport continua a ricordare che un'altra strada è possibile. Proprio per questo motivo, nonostante il parere contrario, almeno secondo i sondaggi, di tanti cittadini giapponesi, abbiamo davvero bisogno di Giochi Olimpici che siano, per l'ennesima volta, simbolo di ripartenza e di pace. Abbiano bisogno di un'utopia che diventi realtà, almeno per 15 giorni.
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