I cento secondi di Kipchoge e altre corse oltre il muro
mercoledì 19 settembre 2018
Cento secondi. Questa è la quantità di tempo che manca per abbattere uno dei "muri" più evocativi della storia dello sport: la Maratona in meno di due ore. Nel maggio del 2017 si era fatto un tentativo curato in ogni dettaglio, complici grandi sponsor pronti a sfruttare l'eventuale eco dal punto di vista commerciale. Una corsa organizzata con l'unico scopo di scendere sotto le due ore: solo tre partecipanti, il circuito dentro l'autodromo di Monza, una serie di "lepri" preparate solo per dare il passo giusto e diminuire la resistenza dell'aria intorno ai protagonisti, la partenza all'alba per sfruttare le ore più fresche del giorno, una scarpa studiata appositamente per l'evento. Non era una gara ufficiale e quindi il record non avrebbe potuto essere omologato, ma quella preparazione immensa serviva a lanciare verso il traguardo il predestinato: il Keniano Eliud Kipchoge, 33 anni, 1,67 metri per 56 kg. Segni particolari: campione olimpico ai Giochi di Rio de Janeiro, ma con un passato da mezzofondista puro, essendo stato in carriera anche campione mondiale nei 5.000.
Un uomo semplice, con una storia dura alle spalle, che dichiara di avere tre segreti: la disciplina («Solo le persone disciplinate sono libere, le altre sono schiave di umori e passioni»), la scrittura («Ho quindici quaderni dove prendo nota delle mie sensazioni, perché quando scrivi poi ti ricordi») e la lettura («Leggo tutto da Aristotele a Confucio»). Tutto questo sarebbe già sufficiente per rendercelo molto simpatico, ma aggiungiamo che nel famoso tentativo di Monza Kipchoge mancò l'obiettivo per
appena 25 secondi. Invece di disperarsi disse: «Oggi ho capito che è davvero possibile». C'è un bel modo di dire nel mondo dello sport, allo scopo di sottolineare il valore terapeutico della sconfitta, che suona così: o si vince o si impara. Kipchoge in quel giorno di maggio a Monza ha certamente imparato, perché domenica scorsa a Berlino ha strapazzato il record mondiale in una gara ufficiale, abbattendo il precedente di un minuto e diciotto secondi e correndo in un tempo totale di 2h 01m 39 sec.
Cento secondi di troppo per potersi sentire come Edmund Hillary, primo alpinista a mettere piede sull'Everest nel 1953 o Roger Bannister, primo atleta a correre il Miglio in meno di quattro minuti nel 1954 o, ancora, Neil Armstrong, primo astronauta a calpestare il suolo lunare nel 1969. Mi fermo qui, anche se sono passati quasi cinquant'anni dall'ultimo esempio citato, perché non ci sono tante altre situazioni così simili a questa e più vicine a noi nel tempo. Forse è già nato il primo essere umano che metterà piede su Marte, ma non ne conosciamo il nome, né possiamo sapere con certezza se e quando succederà. Invece sappiamo che relativamente presto un uomo correrà la Maratona in meno di due ore. Sappiamo che succederà e sappiamo il nome di chi ci riuscirà. Sarà certamente lui, il minuscolo Keniano Eliud Kipchoge. Sappiamo quasi certamente anche dove succederà. Sarà senz'altro a Berlino, la Maratona più veloce di tutto il circuito e, neanche troppo metaforicamente, un posto dove, è noto, i muri cadono. Manca solo il quando, ma da ieri è partito il conto alla rovescia. Siamo in attesa da cinquant'anni di qualcosa di così grande, di qualcosa capace di spostare in maniera definitiva il confine del limite umano e abbiamo bisogno di sogni grandi in questi tempi di piccolezze e sciatteria. Abbiamo bisogno di un uomo, apparentemente così fragile, che ci dimostri che vale la pena ammazzarsi di fatica per realizzare un sogno, ma che contemporaneamente ci dimostri anche che un sogno, senza un progetto, non potrà mai realizzarsi.
Non sottovalutate questa impresa, non crediate che sia solo un fatto sportivo. Il giorno che uno speaker urlerà nel microfono, al termine di una Maratona, "Il tempo finale è di 1h…" non servirà ascoltare la fine. Sarà un giorno in cui il mondo cambierà un po' e, ahimè, all'umanità toccherà cercarsi un altro muro da abbattere, un altro sogno da realizzare. Eliud Kipchoge avrà spostato, quel giorno, non solo i suoi limiti, ma quelli di noi tutti. Perché anche a noi (che non riusciremmo a correre al suo fianco neanche per 30 metri sostenendo la velocità con cui lui corre per più di 42km) avrà insegnato che la vera unica sfida di tutti gli sport, di qualunque tipo e in qualunque epoca, alla fine è sempre e solo una sfida contro se stessi. Un po' come la vita.
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