In una scena di "La Grande Bellezza" Dadina - la mini-direttora di Gambardella - commuove Jep chiamandolo Geppino. «Era un sacco di tempo che nessuno mi chiamava così». «E a cosa servono gli amici - dice lei - se non a farci sentire ancora un po' bambini?».
Dovremmo averla tutti questa grande fortuna: qualcuno che accetti di vederci nella nostra scandalosa bisognosità di amore. Che ci consenta di non recidere del tutto le radici con la nostra inermità, soffocata dalle stratificazioni difensive e dalle costruzioni della crescita.
Che ci sappia contenere in questi andirivieni tra il noi che siamo e ciò che siamo stati. Che si presti a essere testimone della creatura fragile che si nasconde dentro a ogni montagna d'uomo.
Di quell'inner boy o girl dovremmo saperci nutrire senza divorarlo, dandogli in cambio di tanto in tanto un po' di ascolto e di attenzione. O sarà lui a distruggere e divorare noi e tutto quello che abbiamo costruito. Si prenderà i suoi diritti tutti in una volta: avete in mente certe devastanti crisi di mezza età, che travolgono case e famiglie?
Quel bambino è la nostra aurora, il nostro principio creativo, la sorgente, l'intuizione, la fantasia, il gioco, la capacità di visione della mente innocente.
È la nascita, il più potente antidepressivo di cui disponiamo.
Non smettere di parlare con quel bambino è il solo modo per diventare adulti.
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