Dieci anni fa, a distanza di pochi mesi, scomparvero due scrittori e critici che avevano quasi monopolizzato la scena del precedente ventennio: Cesare Garboli e Giovanni Raboni. Il loro prestigio, la loro autorità, il loro fascino letterario ne fecero due maestri di stile e di pensiero. Mi sembra che nessun altro fra i loro coetanei (Garboli nato nel 1928, Raboni nel 1932) abbia avuto sui più giovani un'influenza paragonabile alla loro.Che cosa avevano in comune? In realtà ben poco, a parte il fatto di essere entrambi due critici assolutamente personali, intensamente percettivi e quasi medianici, del tutto indifferenti alle teorizzazioni e alle poetiche militanti. In questa indifferenza c'era tutta la loro forza ma anche, credo, qualche loro limite.Per Garboli la critica era un'attività paradossale: un ramo della letteratura distinto però dalla letteratura, perché mentre la letteratura crea un mondo parallelo a quello reale, la critica usa l'immaginazione per «realizzare la realtà», per capire ciò che esiste. Raboni era un poeta, il più originale, raffinato, eclettico epigono della tradizione novecentesca: in lui si trovano tracce di Rebora e Montale, Sereni e Bertolucci, Fortini e Luzi. Anche come critico Raboni era così ininterrottamente poeta da cercare e trovare poesia anche dove ce n'era poca. Della poesia amava il clima, l'atmosfera, le promesse più o meno mantenute. Ho sempre avuto l'impressione che in Raboni l'estetica prendesse in prestito i toni del giudizio etico: ma la sua immaginazione etica era piuttosto idiosincratica, mancava spesso di obiettività, era più gestuale che circostanziale, più tonale che analitica.A Garboli in verità della poesia e della letteratura in sé importava poco. Gli interessavano gli scrittori come personae, caratteri, personaggi capaci di uno speciale, innocente coraggio, quello di ammalarsi e intossicarsi delle loro passioni, predilezioni e fantasie. La prosa di Garboli è uno dei più sorprendenti fenomeni letterari di fine Novecento. Pochi possono essere paragonati a lui, alla sua rabdomantica maestria, al suo acume di diagnostico: forse soltanto Roberto Longhi e Giacomo Debenedetti.
© Riproduzione riservata