Ugo non aveva fretta di protestare contro l'ingiustizia. La sua motivazione era probabilmente un po' più nobile. Cercava uva e grano. Fino adesso non l'ho detto, ma ogni volta che arrivavamo da qualche parte, Ugo si metteva in cerca di materie necessarie al Sacramento. La messa ci mancava da tanto tempo quanto il bagno caldo, e, almeno quanto il bagno caldo il Corpo ed il Sangue del Signore avrebbero potuto ridarci coraggio. Ora, la Metagonia era ricca di cereali e dei frutti esotici più deliziosi, ma non di frumento e non di vite, così che dovevamo accontentarci di benedire il quinoa e di immaginare un messia che avesse detto «Questo è il calice del mio Sangue» su una noce di cocco. Ancora una volta, Ugo fece fiasco. Niente, allora, gli impediva di fare il liberatore. Spiegò a Tâ che i Gracidi avevano messo in piedi una «struttura di peccato». Esortò le sue mogli a non soccombere all'adulazione dell'essere cantate come dee, mentre erano trattate come bestie da soma: «Non siate né angeli né asine, si infiammò, siate semplicemente donne! Non reclamate né superiorità né inferiorità, ma uguaglianza dei diritti! Anche voi potete cantare, e gli uomini, mettendosi al lavoro, dovrebbero essere felici di ricevere a loro volta i vostri elogi!» Si stupiva di parlare come una passionaria degli inizi del femminismo. Quell'imbecille! Non poteva stare zitto ancora per un'ora? Il bagno stava già fumando! Avrei finalmente rimosso la crosta che attaccava la mia pelle ai miei vestiti! I boia gracidi, quegli artisti del supplizio, s'impossessarono subito di noi e ci trascinarono lontano dal villaggio attraverso superflui zigzag. Tâ ci ricoprì di un “canto di maledizione”. Con una sfilza di ingiurie che facevano di noi al tempo stesso «grossi maiali» e «vermi», «fondi di pattumiera» e «traditori-sociali» – il livello della sua poesia era sceso nettamente – e ci augurò di essere preda delle “Venidri”: «Che quelle furie furiose vi esaudiscano e rispondano ai vostri desideri e i vostri voti. Vedrete e saprete vedere cosa sono le donne femmine che non sono più dee né domestiche!». Ci avevano abbandonato da un quarto d'ora quando venimmo effettivamente catturati da quelle che Tâ aveva chiamato Venidri. Una rete cadde su di noi e più lottavamo per uscirne più ci ingarbugliavamo. Alcuni latrati coprirono poco a poco il canto degli uccelli. Di tanto in tanto, grida di caccia a cavallo portate da voci acute. Credo che in quell'attimo fossimo più in sintonia con la vita degli animali della foresta che non ascoltando il ritornello della cinciallegra: conoscevamo qualche cosa del panico della cerva quando suona il corno. Donne alte dai seni nudi, visi anneriti dalle pitture di guerra, fecero un cerchio intorno ai nostri pietosi sforzi di moscerini nella ragnatela. Alcune mostravano denti straordinariamente bianchi in un sorriso così largo da sembrare un morso. Le mammelle di altre urtavano tra loro come coppie di cembali, avendo il bordo interno ricoperto da placche di bronzo. Ciascuna brandiva una lancia e tratteneva un molosso arrabbiato pronto a rompere il guinzaglio. Non avevo mai visto una manifestazione tanto selvaggia, salvo forse in certi video di artisti contemporanei dell'Europa dell'Est. Disponevano di una tecnica agguerrita, simile a quella del rodeo. Gli americani adoperano l'espressione calf-roping per dire “prendere il vitello al lazo”. I vitelli, eravamo noi. In meno di trenta secondi uscimmo dalla rete legati come arrosti e gettati uno accanto all'altro di traverso su un cavallo. Ugo e io eravamo come due borse trasportate guancia a guancia. Avessi avuto le mani libere l'avrei certamente strangolato. Ammise il suo errore mentre eravamo sballottati verso l'accampamento delle Venidri: «Credo di aver parlato un po' troppo in fretta di liberazione della donna».
(28, continua. Traduzione di Ugo Moschella)
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