Aeroporto di Malpensa, una mattina di luglio. Non sono ancora le 5 e mezza. Sono andata a prendere mia figlia, che torna da lontano. Sullo smartphone con un flight tracker seguo con materna apprensione il tracciato del suo volo.
Io ho sempre volato, senza entusiasmo, per lavoro. Tuttavia ora che su uno di quei bisonti in aria c’è mia figlia sento l’ansia che mi alita sul collo. Cerco di distrarmi guardando la traccia viola che l’airbus segna sulla sua rotta. Vedo che l’altezza dal suolo cala, ora 3000 piedi, che la velocità rallenta. L’atterraggio, mi dico, è il momento più rischioso. Mi mangio le unghie come una bambina, finché il tabellone luminoso assicura: “landed”, atterrato. Allora mi alzo, impaziente.
Ma quel volo arriva da Addis Abeba, ed è carico di migranti. Migranti fortunati: ricongiungimenti familiari, personale chiamato da aziende italiane. E mentre aspetto osservo questi arrivi sereni, contro alle tragedie che siamo abituati a vedere. C’è un padre etiope raggiante che abbraccia la moglie e si prende in braccio sua figlia, la alza in alto come un trofeo. Ci sono bambini che varcano i cancelli e si guardano attorno con immensi occhi spalancati, nel grande scalo già a quest’ora frenetico. Noto che mentre i passeggeri italiani corrono come inseguiti verso taxi e metrò, gli africani invece discorrono fra loro, si salutano fra compagni di viaggio, attendono con pazienza un amico che li venga a prendere. Sembrano non conoscere la fretta, il male endemico che contagia Milano.
Ogni passeggero da Addis Abeba porta con sè tre o quattro valigie pesantissime, e grossi pacchi tenuti insieme col cellophane. Non bagagli da turisti: lì dentro è stipata tutta una vita. Non torneranno indietro. È un minimo spezzone di un esodo molto più grande, epocale, quello davanti ai miei occhi. Ma questi uomini hanno facce serene: sembrano sapere dove andare, e che c’è bisogno di loro. Dunque anche così si può immigrare in Italia: non annegando nel Mediterraneo, non morendo di stenti nel Sahara. Fra i tanti, nella folla, mi cade lo sguardo su una madre, giovane, alta, monumentale. Esce dai gates spingendo, dritta sulla forte schiena, quattro mastodontiche valigie su un carrello: ma, legata sulle spalle, porta una bambina di forse un anno e mezzo. La bambina è vestita con cura, con un bell’abito rosa, e ha i capelli neri e ricci stretti in minuscole traccine legati da nastri colorati. La bambina sulle spalle della mamma è bella, e si guarda intorno tranquilla e per niente spaventata, quasi una piccola principessa che ispezioni il suo futuro regno.
Mi sorprende però che nessuno sia ad aspettare questa madre. Che il marito sia ancora in Etiopia? Che sia vedova, e chiamata qui da familiari già immigrati? Comunque, per lei non c’è nessuno. Lei non ne è stupita.
Con calma legge le indicazioni, poi si avvia verso i pullman per Milano, adagio ma determinata. La figlia sulle spalle non fa un capriccio, una lacrima: guarda solo con meraviglia le luci, le vetrine. Seguo con lo sguardo le due. Dove andrà la sconosciuta, chi l’ha convocata, e perché nessuno è a aspettarla? Lei non pare curarsene, come abituata a cavarsela da sola - come una che ha coraggio. La mamma e la figlia venute dall’Etiopia salgono su un autobus per Milano che si va riempiendo di turisti di ritorno a casa, chiassosi, vocianti. Quelle due calme, zitte, invece, come chi sappia di avere infine passato la grande frontiera, di avercela fatta; e che tutta un’altra vita ora è davanti. Perfino la bambina deve avere capito, dal volto della mamma, che si andava verso una speranza. E ora in braccio a lei si addormenta, all’alba della sua nuova vita. Anche io, per un caso, ho visto un frammento di questa vita nuova che si confluisce fra noi. E inesorabilmente, direi naturalmente, colma i nostri vuoti, e porta da lontano altri figli, nei nostri silenziosi cortili.
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