«Gli uomini sventolarono i loro cappelli, le signore i loro ombrelli. Uno disse che a loro sarebbe piaciuto toccare i muscoli d'acciaio dei campioni più coraggiosi dall'antichità. Chi porterà via il primo premio, entrando nel pantheon dove solamente superuomini possono andare?». Così il quotidiano sportivo “l'Auto” salutava la partenza del primo Tour de France, nel 1903. Una corsa ciclistica destinata a diventare leggendaria, a tramandare storie indimenticabili, a ispirare milioni di appassionati e sportivi nel mondo.
Quest'edizione appena terminata ci ha consegnato un momento indimenticabile, un'immagine che qualcuno ha giustamente avvicinato a quella del famoso (e un po' misterioso) passaggio della borraccia fra Bartali e Coppi, proprio al Tour, nel luglio del 1952, durante l'ascesa verso il Col du Galibier.
Esattamente settant'anni più tardi, nel corso della diciottesima tappa, nel luglio di questo caldissimo 2022, Jonas Vingegaard e Tadej Pogacar, i due dominatori della gara, ragazzi di rispettivamente 25 e 23 anni, si danno battaglia in un'importantissima tappa sui Pirenei. Quando mancano meno di 30km all'arrivo, in un tratto di discesa, in uscita da una curva, Pogacar va leggermente largo, mette le ruote sullo sterrato e cade. Nulla di drammatico, lo sloveno si rialza, si rimette sulla bicicletta e riparte per cercare di recuperare subito lo svantaggio accumulato. Vingegaard, che indossa la maglia gialla da leader della corsa, avrebbe un'occasione inaspettata per attaccare, allungare, consolidare il suo vantaggio, potrebbe essere uno strappo decisivo per avvicinarsi alla vittoria finale. E invece, via radio, la sua ammiraglia lo avvisa della caduta del rivale e lui decide di rallentare e aspettare Pogacar. I due, rapidamente, tornano appaiati. Pogacar, per ringraziarlo, porge la mano a Vingegaard, che ricambia.
Quella stretta di mano è il segnale che tutti e due stanno bene, possono ricominciare a competere, a sfidarsi sui pedali. Giancarlo Brocci, l'ideatore de “L'Eroica”, manifestazione cicloturistica il cui meraviglioso claim «la bellezza della fatica» rievoca il ciclismo di un tempo, con percorsi che si svolgono sulle strade bianche senesi con biciclette e abbigliamento d'epoca, ha descritto così questo meraviglioso momento: «Tra Pogacar e Vingegaard si realizza un gesto che vale il dito dipinto da Michelangelo nella Cappella Sistina perché significa la riconnessione di un grande spettacolo come il Tour con lo sport. Il ciclismo, nella dimensione eroica di due ragazzi che cercano di superarsi, rischiano al limite, cadono e si rialzano, torna alla radice autentica, al rispetto per gli altri, alla gioia dell'impresa, a promuovere amicizia. Questo ciclismo che torna sport promuove i suoi protagonisti come la gioventù più bella, finalmente esempi da indicare a una generazione».
Insomma, quel «pantheon dove soltanto alcuni superuomini possono andare» che nel 1903 descriveva i protagonisti del Tour si trasforma in una bellissima e concretissima realtà: essere «superuomini» alla fine non è un fatto muscolare, ma di animo, lealtà, fair-play.
Per la cronaca, sia quella tappa che il Tour saranno vinti da Vingengaard. Un lieto fine assoluto, almeno per una volta.