La vista dal Palazzo del Governatorato a Fiume, oggi Rijeka, in territorio croato, è splendida. Il mare, giù in fondo, oltre l’agglomerato urbano, sembra un animale impagliato, un trucco ottico. Da qui si affacciava Gabriele D’Annunzio, arringando i suoi legionari. Meglio di tutti lo raccontò, con appassionata esaltazione vitalistica, Giovanni Comisso nelle Mie stagioni. La strada asfaltata gira intorno come in un circuito automobilistico. Siedo sul muretto all’ombra. Sotto al giardino c’è un caffè. Più in là il Museo Civico e quello di Storia naturale. Le case conservano ancora un vecchio stile familiare: grigie, alte, squadrate, con balconate esposte al sole. Più di tutti mi colpisce il tronco di un pino piegato dal vento sul ciglio del vuoto: una quintessenza mediterranea, alla frontiera settentrionale, nell’ultima consunzione veneziana, dove pare scomparire per sempre la gondola nera di Francesco Guardi. La città istriana resta dentro di me come una presenza magica: soprattutto in certe zone limitrofe a quelle centrali, vicino alla cattedrale di San Vito, ho la sensazione di ritrovare l’Italia strangolata a morte. Grida di monelli impegnati a giocare. Madri che li richiamano. Fantasmi del Novecento perduto nelle guerre che hanno ridisegnato i confini ridistribuendo gli idiomi.
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