Dicevo ieri del dubbio sulla bontà di Dio che, da bambina, mi aveva preso nel guardare su un'enciclopedia pesci tropicali velenosi, serpenti, ragni spaventevoli. Un Dio capace di così terribili invenzioni, mi faceva paura. Eppure, di Dio mi parlava anche mia madre. A modo suo, forse poco ortodosso. Ma il Dio di mia madre mi affascinava. Era ovunque: nelle rose canine che sbocciavano in una notte, a luglio, e nel profilo delle Dolomiti, all'alba: quando nel silenzio assoluto quella bellezza era indicibile mistero. Il mio sguardo cadeva sui crepacci profondi e neri, dove il sole non penetrava mai: mi sembravano ferite, luoghi in cui neanche Dio si affacciava. Indicavo a mia madre quel buio, ma lei mi parlava di conchiglie, dei milioni di conchiglie che, in evi inimmaginabili, avevano formato quelle cime dal mare. Il mare? Sbalorditivo ci fosse stato un tempo il mare, in quella valle di boschi. E, di che colore era? domandavo, ma già lo immaginavo, cristallino, trasparente. Dio, per mia madre, era nascosto nella cura con cui le femmine dei passeri covavano le uova, e nella fila disciplinata di formiche al lavoro. Dio era creatore e custode di tutta quella bellezza. Il Dio di mia madre, sommerso nel tumulto nell'adolescenza, anni più tardi è tornato. E io ho mostrato ai figli le albe in montagna, e le rose canine, e le formiche al lavoro. Quel Dio, forse, glielo ho tramandato.
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