Vorrei attirare l'attenzione dei filosofi e teologi morali su un peccato o vizio assolutamente moderno: la velocità. Si tratta di un vizio considerato virtù e socialmente, tecnologicamente indotto. La società ci chiede e ci impone di essere veloci, di fare molte cose e di farle in fretta. Ne parla il fascicolo di giugno dell' "Europeo", che offre in proposito una serie di promemoria. La velocità risulta essere il mito, o feticcio, o idolo più potente e pervasivo del mondo attuale. La religione della velocità nasce all'inizio del Novecento e tutti ricordano le infatuazioni bambinesche dei Futuristi, poveri loro, primi artisti moderni ad avere un'idea fanaticamente pubblicitaria delle arti: pittura e letteratura dovevano incoraggiare la società a correre di più. Non sarà un caso se a partire dagli stessi anni l'umanità veloce ha avuto sempre più bisogno di essere psicanalizzata e resa adatta alle macchine.
Gli elogi della lentezza non sono rari. Ma si tratta di simpatiche eccezioni d'élite, che non cambiano il corso del mondo. Generalmente la lentezza viene considerata una colpa imperdonabile. Il dio Progresso esige velocità. Ma perché? A forza di parlare di consumismo, ecologia e tecnologia stiamo dimenticando che alla radice di tutto c'è l'economia capitalistica, la cui prima necessità è la crescita ininterrotta e senza limiti di produzione e consumo. L'utopia comunista non è stata un rimedio: sognava un capitalismo con tutti i vantaggi e senza inconvenienti, ma realizzò (e in Cina realizza) un supercapitalismo velocizzato e dispotico.
Correlativi della velocità sono la distrazione e l'impazienza: fare moltissime cose senza farle, intensificare la vita, vivere molte vite senza viverne una. Una specie di inferno indolore, che passa inosservato. Qualcuno ha scritto che siamo entrati nell'inferno per impazienza e per impazienza non siamo capaci di uscirne. Se non sbaglio lo ha scritto Kafka, teologo morale della modernità.
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