Si parla di 6.500 operai, provenienti principalmente da India, Bangladesh, Nepal, Sri Lanka, caduti sul lavoro nella frenetica rincorsa contro il tempo per la costruzione di sette stadi in Qatar, Paese che nel dicembre del 2010 ottenne l'organizzazione del Mondiale di calcio che si disputerà nell'inverno del 2022. L'allarme fu lanciato, per la prima volta la bellezza di sette anni fa, da "The Guardian". Il quotidiano britannico mise in luce le condizioni allucinanti per quei lavoratori, sottoposti a turni sfiancanti, in un clima difficilissimo (e non solo per le temperature) e a condizioni di sicurezza del tutto insufficienti, parlando esplicitamente di «schiavitù». Una realtà sconvolgente che questo giornale ha documentato a più riprese, dandole grande evidenza. Nelle ultime settimane, nel corso delle gare di qualificazione al Mondiale stesso, Germania, Norvegia, Olanda e Danimarca hanno preso posizione e stimolato una riflessione circa la richiesta del rispetto dei diritti civili, attraverso iniziative che potremmo definire a impatto comunicativo, come quella di far scendere i propri giocatori in campo con magliette su cui campeggiavano delle scritte esplicitamente orientate a sottolineare il problema. Forse tardi, ma certamente meglio di niente.
Una situazione che ha molte affinità a quella sopra raccontata, si sta verificando per un evento sportivo che, invece, si disputerà fra poco più di mese, quando la finale della Champions League di calcio andrà in scena all'Atatürk Olympic Stadium di Istanbul. Anche in questo caso il punto è il problema del Paese ospitante rispetto ai diritti civili e, nello specifico, la recente decisione del governo di Ankara di ritirarsi, esattamente a dieci anni dalla firma, dalla Convenzione di Istanbul, risoluzione europea contro la violenza sulle donne e la violenza domestica. Si impone, anche in questo caso, una riflessione che accenda una luce su un tema che non può essere ignorato o, per l'ennesima volta, nascosto come polvere sotto l'ennesimo tappeto.
Per onestà intellettuale e senso di realtà è opportuno ricordare che è quasi impossibile che Fifa e Uefa spostino, per dare un grande segnale, la sede di questi eventi. Purtroppo, mi verrebbe da dire. Tuttavia proprio questo principio di realtà impone che la voce dei governi e degli sportivi faccia sì che quegli eventi di impatto planetario, diventino megafoni ancora più potenti sul tema della lotta per i diritti umani fondamentali. In ogni caso, Fifa e Uefa dovranno fare i conti con una decisione storica che arriva dagli Usa, dove la lega professionistica di Baseball ha deciso di cambiare la sede dell'All Star Game, l'evento dell'anno. Doveva essere ad Atlanta, ma proprio per protestare contro la recente stretta della Georgia sul diritto al voto che penalizza in particolare la comunità afroamericana, la lega ha preso questa decisione gigantesca ed improvvisa, provocando il plauso di Barack Obama e le ire di Donald Trump.
Insomma, si può fare! Anzi: lo sport ha storicamente avuto il merito di anticipare i tempi, di "vedere" e dimostrare che è possibile una società più giusta, più inclusiva, più attenta e rispettosa dei diritti umani base di civiltà. Questi mesi di sport fermo, ci impongono il dovere morale di ricordarlo a quel pezzo di mondo che ha la fortuna di poter continuare a scendere in campo e che dovrebbe giocare questa partita per i diritti civili a testa altissima, in nome di chi oggi è costretto a guardare.
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