Era il mio fratello maggiore. Mi portava sulle spalle, da piccola. Ormai eravamo vecchi. Quel mattino di marzo - i russi erano già in città - Vlad era andato a cercare da mangiare. Raffiche di mitra, esplosioni, attorno. Ma avevamo fame. L'ho aspettato, sussultando a ogni passo sulle scale. Non era mai lui. Quando si è fatta notte ho capito che non sarebbe tornato. Sono rimasta sola qui, al settimo piano di un vecchio palazzo sovietico sbrecciato. All'alba mi sono affacciata, cercando ovunque la sagoma magra di mio fratello. Vedevo passare i carri armati, e, in giro, nessuno. Ma, affacciandomi all'angolo estremo del balcone, ho scorto sul viale una figura riversa a terra. La faccia non si vedeva, ma all'uomo era sfuggita una borsa, e delle patate erano rotolate fuori. E mio Dio, le scarpe, quei mocassini gialli. I suoi.
Ogni giorno da allora sono stata a quel balcone, di vedetta. Nessuno lo ha portato via: troppa paura. Io, da sola, non ce l'avrei fatta. Ma una mattina all'alba sono corsa lì, e gli ho lasciato un fiore. E sono passati interminabili i giorni, e si è alzata la luna, e Vlad sempre là, come un cane, senza una croce. Solo ieri l'hanno portato via, e lo potrò seppellire. (Non manca molto neanche a me, il cuore la notte pesa come cemento).
Mai ho desiderato tanto la Pasqua. Che Cristo sia risorto, davvero. Che in lui, fratello, ci ritroveremo.
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