Già Freud aveva diagnosticato come l'essere umano fosse attratto da due princìpi, Thanatos ed Eros, l'istinto di morte e la voglia di vita. Ma quale è più forte? L'uomo è fatto per la vita o per la morte? Tutto ci porta a dire – a partire dalla nostra mortalità – che siamo destinati alla fine. Ma è davvero così? Lo scrittore americano Don DeLillo, nel suo romanzo L'uomo che cade (Einaudi), fa dire – ricordando la tragedia dell'11 settembre – a un suo personaggio, Florence, in dialogo con un altro personaggio: «“Mi ripeto che morire sia una cosa normale”. “Non quando sei tu. Non quand'è qualcuno che conosci”. “Non sto dicendo che non bisogna soffrire. Ma perché non affidarci a Dio e basta?”. “Com'è possibile che ancora non abbiamo imparato, con tutta la gente che è morta? Diciamo di credere in Dio, ma allora perché non ubbidiamo alle leggi dell'universo che Dio ha creato, e che ci insegnano quanto siamo minuscoli, e a cosa siamo tutti destinati?”». Ecco, qui è lo scarto: siamo destinati alla vita, non alla morte. Come dice san Paolo, è il peccato che ha allontanato l'umanità dal suo destino, la vita, e la vita eterna. Cristo, risorgendo, ci ha aperto di nuovo questa strada. E l'insopprimibile nostalgia di vita quando si palesa la morte ci parla di un destino di pienezza.
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