De Martino lo sapeva: il mondo finisce quando la realtà sfugge di mano
venerdì 4 novembre 2016
Di fine del mondo si parlò molto fra anni Cinquanta e primi anni Sessanta. Dopo Hiroshima e Auschwitz, in piena guerra fredda, un tale allarmato e angoscioso pessimismo aveva le sue ragioni. Il filosofo Günther Anders, di fronte alla tranquilla arroganza di tecnocrati e specialisti, arrivò a definirsi «specialista in fine del mondo» e «seminatore di panico». Solo i marxisti, credendosi uomini forti, non ci credevano, credendo che si trattasse solo di metafore ossessive annuncianti la vera realtà prossima ventura: il crollo del capitalismo come prologo di una rivoluzione vittoriosa. Poi, lentamente, l'Apocalisse fece ingresso nell'Estetica e la conquistò. Anzi fu l'estetica a conquistare catastrofi e fine del mondo, trasformando tutto in elettrizzanti ingredienti per l'industria del divertimento. Gli effetti di questa estetizzazione della fine del mondo ridotta poi a videogioco, si vedono ancora e dovunque.
Folkore a parte, il problema della fine del mondo resta una cosa seria e molto poco effimera. Basta rileggere le pagine del nostro maggiore antropologo Ernesto De Martino (1908-1965) riproposte come editoriale nell'ultimo numero dello Straniero, per sorprendersi della loro attualità. Anche lui nei primi anni Sessanta venne liquidato con un'alzata di spalle, se non “scomunicato”, dalla sinistra comunista. De Martino parlava, da antropologo, di “apocalissi culturali” e nel 1977 Einaudi pubblicò La fine del mondo, un grosso volume con tutti i materiali della sua ricerca incompiuta.
Il mondo finisce quando l'umana civiltà si disgrega o si “autoannienta” (in un popolo, in una classe sociale, in un solo individuo) perché perde il senso dei valori intersoggettivi: «la vita deve avere un senso ma può anche perderlo per tutti e per sempre e l'uomo, solo l'uomo, porta in terra la responsabilità di questo deve e di questo può». Non esiste, dice De Martino «nessun piano della storia universale operante indipendentemente dalle decisioni reali dell'uomo in società». Qual è lo stato dei nostri rapporti attuali con il mondo in cui viviamo? «La vita è ciò che si tocca», disse un operaio citato da De Martino. È il senso della vita che forse ci sta sfuggendo di mano.
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