Il rumore lontano di un trattore accompagnava la quiete delle domeniche, sulle colline. Nemmeno sotto al sole delle due qualcuno, nei campi, smetteva di lavorare. E di sera, anche, nelle lunghe luminose sere d’estate, ancora sentivo quel motore che ruggiva, risalendo le sterrate. Un lavoratore instancabile. Lo vedevo sul suo trattore, nel fracasso dei cingoli, e alzavo la mano in un cenno di saluto.
Da oltre vent’anni, da quando i figli avevano bisogno di prati per correre, andiamo in un piccolissimo paese del Monferrato. Ho imparato a conoscere le vigne di barbera e grignolino, e il balzare improvviso delle lepri. Il fulgore dei papaveri a giugno, dei girasoli a luglio, poi l’appesantirsi dei grappoli scuri sui tralci. I campi crepati e nudi e il silenzio terso dell’inverno, il profumo di legna dai camini. E gente gentile, che sorrideva ai nostri bambini. Conoscevo i vecchi: Maria, Isa, che a novant’anni, serene, ancora potavano le rose nell’orto.
C’ero tornata proprio domenica, in quel paese, e tutto mi era parso era bellissimo: muri di papaveri sulle scarpate, cascate di rose nei giardini, la vegetazione dopo un mese di pioggia rigogliosa, trionfante. E mi ero detta che vivere qui deve essere un’altra cosa, lontano dai cementi di Milano, dai metrò affollati, dal correre, continuamente.
Ma martedì sera mi ha telefonato una vicina. Quelle vigne sulla collina, quel trattore ruggente, quel signore sui cinquanta, infaticabile nella sua terra. “Antonio (non è il suo vero nome) si è ucciso”, mi ha detto attonita. Io senza fiato. “Ma perché?” domando infine. “Depressione, pare”. Aveva una famiglia, e un’anziana madre, una donna dolce e mite, che vedevo andare a Messa la domenica.
Penso al suo strazio. Non troverei alcuna parola.
Ma c’è qualcosa, che mi stupisce nel profondo. Questa terra fino a vent’anni fa conservava tradizioni cristiane: ricordo una folla al Rosario, tutti gli anni in una cascina, a fine maggio. A Pasqua i bambini venivano portati in giro su un carrettino, vestiti a festa, le uova dipinte in mano.
Ci andarono anche i miei. Poi si smise, troppo pochi erano i bambini. Eppure quei vecchi forti sorridevano, seduti davanti a casa, e aspettavano il vino nuovo.
Morire in un paese bellissimo, mentre germogliano i grappoli sulle vigne e l’aria sa di rose. Voler morire a 50 anni, anche se hai la tua terra, e chi ti vuole bene. Depressione: chi non ne è mai stato sfiorato non capisce, è incredulo. Ma quel male silenzioso è arrivato anche fra queste colline, ne ha superato la pace.
Io, che la depressione l’ho avuta, conosco quella assoluta, rovinosa mancanza di senso che può travolge un giorno ogni concreta realtà: come se non esistesse più niente. Ciò che più taglia è però vedere che questo accade anche tra la gente che diceva quel rosario, gente di fede. Come se qualcosa in pochi anni si fosse incrinato, e quel male che spinge a morire attecchisse anche qui, fra queste colline, ognuna col suo campanile bianco.
Antonio, non sentirò più il tuo trattore. E tua madre? Vorrei solo abbracciarla. Noi pensiamo alla Russia, alla minaccia nucleare. Ma una disperazione silenziosa può prenderti in un paese in pace, in un maggio radioso, e insediarsi, padrona.
Parliamoci, facciamoci domande, guardiamoci negli occhi, ogni giorno. Quel nemico prospera nelle solitudini. Occorre, reciprocamente, custodirci.
© riproduzione riservata
© Riproduzione riservata