Il 31 dicembre, venerdì, si guasta la pompa dell’acqua, non si potrà riparare prima di lunedì 3 gennaio. Così torno agli inizi della casa che abito, usando la piovana, raccolta dalla grondaia del tetto, portandola coi secchi. Tre ne bastano per una giornata. Non mi dispiace tornare all’antica e intanto ricordare che le generazioni precedenti sono andate ai pozzi, alle fontane. Le donne portavano i panni al lavatoio, erano lavandaie, mani a mollo in acqua fredda, braccia a torcere lenzuola. Nel villaggio africano di mezza vita fa, le donne andavano lontano a caricarla, trasportandola dritta sulla testa e non traboccava goccia. Un guasto riporta pensieri di altri tempi, i gesti ricalcano usanze di risparmio. Mentre taglio legna con la sega mi sbuccio il dorso della mano. Non lavo, lascio seccare continuando a segare. A sera una macchia di sangue sulla sinistra mi ricorda la tradizione di portare addosso qualcosa di rosso per l’ultimo giorno dell’anno. Ma prima, sul campo, un tiepido tramonto da primavera in fiore aveva già sparso il colore propizio. Ronzava pure un ardito calabrone. In questo giorno ripenso a mia madre che ha abitato con me in questa casa rustica, col tetto che perdeva e dove non si sente neanche un petardo lontano a Capodanno. Lei che a Napoli vedeva la città friggere tutta insieme di artiglierie domestiche, di bengala accesi a ogni balcone.
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